Nati tra la fine anni 80 e i primissimi anni 90, ve la ricordate la fine del decennio scorso? Non voglio fare del nostalgismo di bassa lega ma chi ha seguito un certo percorso di ascoltatore di musica (ed è qui a leggermi) probabilmente ha iniziato ad allenare le orecchie a quella che possiamo definire molto genericamente una scena (più o meno) alternativa e (più o meno) indipendente negli ultimi cinque-otto anni. Per molti vorrà dire Pete Doherty e le sue allegre disavventure musicali e non, the Killers, Arctic Monkeys, Crystal Castles eccetera eccetera. Ho detto Crystal Castles, oggi passati ampiamente in secondo ma anche terzo piano: però quanti di voi ex Adolescenti Indie che si fanno le foto come i Crystal Castles hanno il coraggio di ammettere dove li hanno ascoltati per la prima volta?
Lo dico io così spezziamo il ghiaccio; in Skins, vera Bibbia profana dell’indi minorenne di quegli anni. Gli amici veri, gli amici falsi, i genitori spaccapalle, la scuola, la scoperta della gnocca, tutto con l’aggiunta di un sacco di droghe e sciagure più o meno melodrammatiche. E la musica: accanto a una regia e una sceneggiatura furbissime, che non potevano non trovare riscontro presso il pubblico di riferimento, una selezione musicale altrettanto furba. E a proposito di scelte azzeccate, faceva la sua comparsa anche Hell Is Around the Corner di Tricky. Che dopo anni dal primo ascolto continua a rimanere una miracolosa pozione di erotismo sporco, imbottigliata in quattro minuti scarsi di beat melmosi e vocals ciondolanti. Questo era il Tricky fenomenale degli esordi, enfant prodige della scena di Bristol; di acqua sotto i ponti ne è passata, bene o male.

Adrian Thaws è la decima opera in studio, presentato come un album a metà tra la musica da club e l’hip hop ma nel quale scorrono anche il jazz, il reggae, l’house, il blues. Elementi che, a turni, è sempre stato possibile trovare nelle produzioni precedenti ma forse mai in maniera tanto radicale. In Adrian Thaws dall’undicesima alla dodicesima traccia si passa da un martellamento ravey in stile Prodigy (Why Don’t You) allo smooth reggae (Silly Games): è il caso più estremo ma calza fin troppo bene a rendere il clima che si respira.
Più riuscita l’accoppiata precedente, due facce della stessa medaglia: la medaglia è il trip hop che si svela sensualmente minimale, da jazz club degli anni ’10 in I Had a Dream, e annegato nella tempesta industrial al fosforo bianco di My Palestine Girl.
Da segnalare la presenza da coprotagonista della vocalist italo-irlandese Francesca Belmonte che mette la firma della propria ammirevole ugola su alcuni degli episodi più intriganti, dal primo brano estratto Nicotine Love (con sfumature ora spigolose, ora levigate nel segno della migliore house classica) alla già citata I Had a Dream. E ancora in Lonnie Listen, EBM acre più hip hop più disgusto e degrado figli della post modernità con nascosta citazione nel ritornello. Di nuovo rap, questa volta completamente, spudoratamente anni 90, in Gangster Chronicle con il featuring cafone della vocalist Bella Gotti e, sorpresa, perfino un blues country ritmato, Keep Me in Your Shake.

Non si può cestinare Adrian Thaws come un album brutto, anche se a primo ascolto è questa l’impressione che può fare. Piuttosto serve riflettere sulla mancanza di organicità e armonia, sull’assenza di una linea comune che fa sembrare queste dodici tracce come una serie continua di citazioni, intriganti e ben costruite quanto si vuole se prese singolarmente ma mediocremente orchestrate dall’alto. Quando va a rendere tributo a un periodo o ad un genere non si trova quasi mai qualcosa che non sia già sentito (l’elettronica spinta di Why Don’t You la fa suonare veramente come una traccia random dei Prodigy di un sacco di tempo fa). Quando Tricky interpreta se stesso nei canoni del trip hop il problema è purtroppo sempre lo stesso; lo abbiamo già sentito e lo abbiamo sentito meglio.

Traccia consigliata: Nicotine Love.