Parlare di Tomas Barfod senza neppure accennare ai WhoMadeWho non solo sarebbe problematico, ma potrebbe risultare anche come una mancanza o profonda lacuna. In sostanza, cari miei, proprio ve lo devo dire che Barfod è il batterista, ma anche produttore, della band danese. Sì, sono un po’ scocciato, lo ammetto! Il motivo di ciò è che i WhoMadeWho li ho sempre seguiti e apprezzati, tuttavia il nostro rapporto col tempo è andato logorandosi. Il primo album studio WhoMadeWho è stata cosa da ganzi col muso duro: birre del discount e parolacce alla mamma; The Plot, invece, l’album dei diciottenni: ragazzine, maturità e whiskey sour. Poi arriva l’estate del 2011. Knee Deep era noioso, e il calco Hot Chip non funzionava. Quindi i primi dissapori e attriti. Ingoio tappandomi il naso Brighter e, due anni dopo, vedendo i WhoMadeWho, quei veri cazzuti, sul palco dell’Ariston al fianco di Arisa, capisco che tra noi, di lì a poco, sarebbe finita. Dunque Dreams, qualche giorno dopo. Affranto e deluso da questa suono barboso e calcolato, prendo consapevolezza e coraggio: vi ho voluto bene e ancora ve ne vorrei, ma non si gioca con i sentimenti.

Ho sempre, però, riposto molta fiducia in Tomas e nella sua vita artistica parallela. Qualunque percussionista, al di là di qualche eccezione, è ben risaputo, è una mezza divinità. Neanche a dirlo. Barfod esce nel 2012 da solista. Salton Sea lo consacra e fa brillare il suo nome, ma ha già peccato di tracotanza e superbia, e inoltre mischiato sacro e profano. La sacralità dello strumento si è infatti perduta nella mondanità di un electro-pop volgare e becero. Dei pad o una drum machine non per forza ti fanno Karl Bartos.

Nina Kinert, cantante svedese, presta la voce anche a questo giro. Il risultato è una secchiata di pop gelido da vasocostrizione. Pulsing si erge a paradigma di ciò, ma Busy Baby, Aftermath e Waiting For Us reggono il passo. Dunque, electro-pop sulla falsariga di quello espresso da Kesha, bass drum notevole, di quelle che fanno pomiciare duro i sedicenni, ed effetti per gli amanti degli occhiali da sole specchiati in disco. Love Me è un coacervo di membri. Infatti, molto spesso, si riscontra la presenza del pop-folk da balera; Bell House e Lost, bandiere di questo, rompono il ghiaccio e invitano le coppie al centro pista. A fatica, poi, due spezzati strumentali, Destiny’s Child e Mandalay, tentano di armonizzarsi con l’architettura. Jeppe Kjellberg, chitarrista dei WhoMadeWho, volentieri si presta come spalla, e Blue Matter è anche solo per un attimo un suono più abbottonato, ovvero ai margini del teen pop. Sleep Party People, un progetto del danese Brian Batz, collabora con Barfod nella produzione di Honey: un eco alto nel piacevole riverbero dream pop. Sell You, infine, è il brano strappalacrime cotanto atteso; Night Beds, maestro in questo, viene in aiuto a Barfod nel provare la vulnerabilità di ciascuno di noi. Occhio alla lacrimuccia.

Ora, Love Me manca in parti della scrittura e di coerenza. Ciò non è evidentemente un male o un neo, infatti in alcun album destinato alla testa delle classifiche non vi si trovano erbacce. In ogni caso, proprio non riesco a comprendere l’inversione di tendenza: il pattern in Rose mi ha visto stappare birre con i denti; Love Me bere un succo di frutta al mirtillo con la cannuccia.
Ti ho voluto tanto bene.

Traccia consigliata: Pulsing.