Cronache di una storia che non si è potuta avverare.
Sarebbe stato bello, dico davvero, potervi raccontare di un album della madonna; raccontare di come le chitarre di Dan e la batteria Patrick ci avrebbero potuto distrarre un attimo dalle drum-machine, dai synth e da tutto il resto; sarebbe stato bello poter far ascoltare fieramente un paio di tracce ai nostri padri, che il genere l’hanno visto ai suoi massimi, facendoli stupire per il fatto che gruppi del genere esistono ancora. Sarebbe stato bello tirare fuori la Fender messa da parte da qualche tempo e suonare assieme a loro, almeno nella fantasia di chi si accontenta della compagnia di un amplificatore e della musica in sottofondo. MA tutto questo non è possibile perché i Black Keys ci hanno deluso.

Cronache di una storia che purtroppo si è avverata.
Sentimentalismi a parte, non possiamo portare rancore ad un gruppo come il duo di Akron (OH), rei solo di non aver rispettato le promesse e dunque indirettamente di aver sfornato un album della madonna tre anni fa con El Camino. La delusione però è resa tanto più amara dall’asticella delle aspettative che era stata alzata con quel singolo pazzesco che è Fever, una traccia completamente in linea col lavoro precedente, unico acuto in quello che è Turn Blue. Ma cosa rende quest’ultimo lavoro così al di sotto di ciò che speravamo di trovarci? Fondamentalmente la qualità dei brani, che è costantemente media, registra solo due picchi molto alti, vale a dire il sopra citato Fever e l’eclettica Bullet In The Brain, che concilia due anime agli antipodi quali la psichedelia e l’indie rock anni 2000. Un paio di allarmi li avevamo già avuti a dire il vero: se infatti Chris Martin sembra aver ritrovato la vena artistica da un divorzio pubblicizzato su tutti i tabloid, il povero Dan Auerbach non ha ricevuto lo stesso clamore mediatico, quando durante la registrazione dell’album ha formalizzato il suo divorzio, dichiarando quanto questo abbia influito sul loro lavoro. Allo stesso tempo la registrazione, per quanto mixaggio e sound siano eccellenti, sembra aver influito negativamente sul tutto, a causa dell’incostanza che l’ha accompagnata: alcuni brani sono stati registrati in una sessione estemporanea di 12 giorni durante il tour per il precedente album, le altre durante diverse sessioni tra la California e il Michigan.

Quello che aveva reso eccezionale El Camino erano brani con un tiro pazzesco, brani che sembravano usciti direttamente da inediti di Led Zeppelin Deep Purple; ma di questo non c’è più traccia. I due si sono completamente adattati all’esigenza dei tempi, donandosi un’estetica contemporanea che non fa più sognare, e che paradossalmente non riuscirà neanche nell’intento di vendere di più.  Dove c’era Little Black Submarine ora c’è Waiting On Words, al posto dell’armonia di Gold On The Ceiling ora c’è… ora non c’è niente, perché non si bissano due volte robe del genere. E se ascoltando la closing-track Gotta Get Away vi sembrerà di averla già sentita, beh non avete le allucinazioni dato che la somiglianza con qualcuno che la storia l’ha gia fatta è ultra evidente.

Doveva essere una delle bombe dell’anno, ma purtroppo si è rivelato solo un grosso boccone amaro e due tracce venute bene non valgono una sufficienza piena. Che peccato.

Traccia consigliata: Fever