Succede che da un po’ di tempo a questa parte i bianchi si fanno carico dell’onere di perpetuare le sorti di soul e R&B. Sommariamente la ricetta prevede massicce dosi di elettronica e, imprescindibile, un timbro black. Il bizzarro esercizio nella maggior parte dei casi è fisiologicamente destinato a svuotare il genere di ogni connotato identitario. Non si discute la fattura dei lavori di un artista come SOHN, sinergia di tecnica e intuizione, ma nell’anno appena trascorso la musica nera ha dimostrato di godere di ottima salute se affidata alle cure degli eredi di chi l’ha generata. Oggi la tendenza di cui Christopher Taylor è parte integrante rischia di apparire fine a se stessa, quasi al limite dell’ingiustificato quando l’apporto personale nel rimodellare il genere non si rivela straordinariamente significativo (per intenderci, James Blake è uno di quelli che hanno trovato il modo di farsi perdonare ogni tipo di saccheggio socioculturale).

Il producer britannico è alla sua seconda prova sotto i riflettori. A sommare gli addendi a disposizione – un’estensione vocale notevole, l’attitudine spiccatamente pop e la perizia nell’amalgama a base di elettronica – ne viene fuori un mood tra i più prevedibili, che non si discosta da quello con cui aveva deciso di presentarsi al pubblico tre anni fa. Quello con Tremors fu un esordio discusso, che probabilmente non avrebbe diviso così tanto la critica se il suo autore non fosse stato già noto per le doti in cabina di regia. L’inclemenza nel giudicare le gesta in prima persona di chi è già ampiamente apprezzato in veste di produttore spesso è gratuita, ma lo è un po’ meno quando il capitolo che segue il debut si adagia su allori ancora tutti da consolidare.

In Rennen il Taylor producer persevera nel puntare sull’immediatezza e prosegue spedito sulla falsariga pop del predecessore, mentre il Taylor artista si prende la libertà di cambiare umore più di una volta, intervallando brani radiofonici e sfacciatamente modaioli con episodi dalla struttura meno convenzionale. Il disco decolla nella doppietta iniziale di nu soul a ritmi sostenuti, quello in crescendo del gospel di Hard Liquor e la sensualità collaudata delle linee vocali di Conrad. Ahimè, niente che Nick Murphy non abbia già tentato quando ancora si faceva chiamare Chet Faker. Anche il sound delle parentesi più intime è affetto da una certa dipendenza dai trend del momento, e in brani come Signal e Still Waters Taylor sfrutta abbondantemente quella componente crepuscolare che ha fatto la fortuna di colleghi come Hozier o Jamie WoonSpesso al cantato è concesso più spazio del dovuto, mentre arrangiamenti lineari fatti di sintetizzatori e drum set, pochi elementi che lavorano di precisione, saturano gli interstizi lasciati liberi.
Tra tante mosse furbe, si apprezza la rotondità degli episodi più equilibrati in tal senso: Primary è dance sinuosa che dopo una riflessione sulle ultime Primarie statunitensi si dilunga in un pulsare elegante, Harbour esordisce eterea con due strofe di sola voce che poi si spegne mentre sale un magnetico impasto drum’n’bass. Entrambi i brani sono prove della declinazione migliore che il cantautorato electro di SOHN sa assumere, ma decisamente troppo poco per traghettare un intero disco dal ben fatto al memorabile.

Traccia consigliata: Harbour