Da quindici anni a questa parte i rumors su un possibile ritorno dei mai abbastanza compianti The Verve trapelano con cadenza discretamente regolare. Dal primo scioglimento, avvenuto – ahimè – appena due anni dopo la consacrazione con Urban Hymns, c’è stato un solo caso in cui le voci si sono rivelate fondate, ed un unico album a seguire (Forth, che pure si era rivelato un discreto lavoro). Il più delle volte invece c’è stato da accontentarsi del premio di consolazione, in forma di disco firmato dal solo Richard Ashcroft.

C’è da dire che ogni volta è comunque una sorpresa, perchè l’ex leader della formazione brit pop continua a dimostrarsi insoddisfatto di tutte le strade intraprese durante la sua singhiozzante carriera da solista e, di conseguenza, lo troviamo a cambiare rotta, continuando a flirtare senza troppa convinzione con universi sonori distanti da quelli in cui è nato, ma finendo per risultare il più delle volte approssimativo.
Questa volta Ashcroft ha scoperto i synth. Lo abbiamo lasciato che tentava di adagiare le sue invettive persino su basi rap (United Nations of Sound, 2010), ma stavolta, pasticciando tra le mura del suo studio casalingo, Richard è riuscito a partorire un paio di arrangiamenti che lasciano forse ancor più basiti. Prendi l’iniziale Out of My Body: c’è una delle voci tra le più evocative di quello che fu il rock anni ’90 che sgambetta su un elettro pop anch’esso di stampo anni’90. Detta così, sembra non ci sia nulla di male. Sugli stessi addendi stridenti i New Order ci hanno (ri)costruito una carriera. Peccato però che qui la sensazione sia piuttosto quella di trovarsi davanti a un ibrido straniante, un matrimonio combinato fallito, quasi un frutto di quella pratica demoniaca, largamente in uso nel decennio in questione, nota come mash-up.

La buona notizia è che il peggio passa dopo la prima traccia. Quella cattiva è che nessun’altra traccia, neanche il gradevole pop elettrificato del primo singolo This is How it Feels, riuscirà a bilanciare tale prima disastrosa impressione. Il piglio danzereccio di Hold On bissa l’imbarazzo con campionamenti inflazionati, e le liriche impegnate a dissertare di rivolte islamiche e gas lacrimogeni finiscono per completare il quadro dadaista (perchè anche le migliori intenzioni rischiano di restare inespresse se non veicolate nel modo giusto).
Per il resto del disco la formula non si scosta da quella dei primi lavori di Ashcroft solista: rock acustico in forma di ballad dalle ormai timide ambizioni orchestrali, risultando inevitabilmente datata. Ogni volta che durante l’ascolto ci si scrolla il torpore di dosso è solo merito della nostalgia: molti i rimandi agli episodi più osannati della propria carriera, e niente affatto velati. They Don’t Own Me prende in prestito le linee degli archi da Lucky Man, la title track ne scimmiotta l’atmosfera, le chitarre dimesse di Black Lines si illudono di poter replicare gli esiti di una ballata come The Drugs Don’t Work e contemporaneamente la coda strumentale sfuma imitando (male) quella di A Song For The Lovers.

Richard, ritenta. Anzi no, basta.

Tracce consigliate: This Is How It Feels