David Kennedy è Pearson Sound. Per il suo primo disco con questo moniker non ha avuto molta fantasia per il nome e l’ha chiamato Pearson Sound, ed è uscito per la Hessle (sua etichetta) qualche mese fa. Contiene nove tracce, per 42 minuti e 6 secondi di ascolto di elettronica strumentale. Questa intro è delicata quanto è delicato l’attacco del disco che esce dalle casse dopo aver premuto play: per niente.

C’è una forza primordiale nell’elettronica colta di questo Pearson Sound che è quella assoluta del ritmo; tra questa foresta buia di suoni minimi e tamburi accordati in tonalità vi ritroverete a muovere la testa e, senza neanche accorgervene, ad essere dentro quella macchina ritmica letale che ha creato il buon Kennedy. Forse è questo lo scopo finale dell’inglese: lavorarci con i suoi pezzi in tempi composti, controtempi, senza lasciare tempo per riprenderci. Pearson Sound è ipnotico e ci cattura con le sue macchine musicali. Alla fine del disco vi chiederete probabilmente «cosa ho appena ascoltato?» eppure non avrete schiacciato skip neanche una volta, e neppure esiterete a riprendere il viaggio matto nel dedalo di Kennedy.

Il fatto è che tutto suona dannatamente interessante, stimolante all’ascolto. Nella sua crudezza quasi scarna, nei suoni delle drum machine analogiche, e negli spazi vuoti tra i suoni differenti Pearson Sound non sembra un’opera già lavorata; sembra piuttosto un’arnese per lavorare. È un trapano nel primo pezzo, con dei bassi *inauditi* ed esplosivi in Asphalt Sparkle (prendete le cuffie buone); gli stessi ritornano meno totalizzanti ma comunque profondissimi in Glass Eye, e dopo un rullante sospeso nel nulla a riverberare appare un hat disciolto, un saldatore; è una pialla fatta di pad abrasivi in Gristle; è un martello a forma di grancassa sintetica (che forma ha la grancassa sintetica direte voi? eh non lo so, però si sente) in Swill; in Six Congas è un’intera fabbrica che finisce con una delle poche concessioni melodiche di Pearson Sound, la scala “pura” di do maggiore che però si disintegra dopo 4 note; è una catena di montaggio nella splendida e claustrofobica finale Rubber Tree che si chiude nel noise con un feedback ripetuto.

Il lavoro di Pearson Sound condivide con quello di Jon Hopkins la predilezione per le architetture musicali complesse e inusuali, per gli spazi sonori; ma se Hopkins abita i suoi edifici elettronici con dei residui ambient Kennedy lascia tutto intorno a risuonare, abbandonato. È la concezione cervellotica della musica elettronica invece che l’avvicina ad Aphex Twin, assolutamente cerebrale e robotico ma con una presenza umana incontrovertibile, anche se Pearson Sound se ne discosta con i suoi suoni asciutti e freddi, metallici, non tondi ma appuntiti. Forse però Pearson Sound è davvero un robot malvagio e questa è la sua opera-messaggio, l’inno nazionale dello stato delle macchine, per indicare che sta venendo a distruggerci tutti. Se la sua forza è simile a quella del suo disco io mi arrendo, sulla fiducia: lode al regno dei robot, lode al regno di Pearson Sound. Ricordati di me David, un abbraccio.

Tracce consigliate: Glass Eye, Rubber Tree