E’ arrivato il momento di andare a fare un giro in America. Se state pensando a quell’America tipo Los Angeles/star-system, o a quella stile “New York state of mind” siete fuori strada; e dimenticatevi pure la tanto cara Motown o la techno Detroit…niente di tutto ciò! Shadow of the Sun ci porta a fare un giro a Portland, o meglio, ci porta in giro partendo da Portland. Gli autisti “lunari” per questo viaggio sono appunto Erik “Ripley” Johnson, già chitarrista dei Wooden Shjips – band psy-rock particolarmente stimata da Jim Jarmush – e la sua compagna tastierista Sanae Yamada. Dopo aver abbandonato le melodie infinite dei primi due lavori a favore di brani con strutture un po’ più “regolari”, a tre anni dal precedente Circles, i Moon Duo tornano con un lavoro annunciato come “il risultato di mesi di profonda incertezza”. Un po’ White Stripes, un po’ Black Keys, – in versione psychedelic e con vocazione decisamente più experimental – quest’album sembra però non aver risentito di quest’incertezza ma, al contrario, sembra averne giovato, e punta a diventare il miglior album della band.
Muovetevi, agitate la testa e alzate il volume. In questo disco non c è un solo secondo morto. “Ripley” Johnson sa sicuramente come far suonare una chitarra e sa di sicuro come e quando esagerare. Chitarre piene, ipnotiche, psichedeliche, si alternano tra riff d’altri tempi e assoli da ricovero, il tutto accompagnato da un lavoro minuzioso delle tastiere e dall’uso abbondante di effetti, e synth. Il risultato? Un album generoso e corposo, rinchiuso in 46 minuti che fanno davvero un bel casino, soprattutto se si pensa a un “duo”. Anche se, a dirla tutta, i due rocker dell’Oregon sono ormai diventati un trio, da quando, al termine delle registrazioni dello scorso album, la presenza del batterista John Jeffrey è diventata una costante. E la differenza si sente: c’è una marcia in più al lavoro dei Moon Duo. Sia chiaro, non è che stiamo parlando di batterie leggendarie o di qualcosa d’incredibile, ma una fusione tra il classico stile rock e un’impronta da beat elettronico che, con la sua presenza e la sua spinta constante, dà quel “qualcosa” che è fondamentale per la riuscita dell’album.

Potremmo stare qui ad elencare i pezzi migliori o le cose veramente belle di questo disco, come il basso di Zero oppure i distorti e i noise di Free the Skull o l’assolo infinito di In a Cloud, ma sarebbe solo una perdita di tempo. Molto meglio ascoltarlo tutto, ne vale la pena. Shadow of the Sun è l’esempio di come fare bene un disco. L’insieme tra chitarre e tastiere è da manuale e le ambientazioni e le atmosfere si muovono in direzioni che vanno da qualcosa di vagamente country fino ai garage dell’underground. Pur mantenendo la stessa anima, ogni pezzo ha un’inclinazione diversa che vi porterà in giro per i mondi disegnati dalla band. Ogni brano sembra essere ipnotico. Ogni traccia si appoggia sul beat per poi muoversi in direzioni che appaiono quasi improvvisate; non si ha mai l’impressione di capire dove stia andando il brano che si ascolta. Niente è scontato. Strofe e ritornelli sembrano arrivare dal nulla e svanire negli altri strumenti, aiutati dai vocal appena abbozzati e a volte cantati da Johnson e Yamada in maniera indecifrabile, messi lì in l’equilibrio perfetto tra pattern strumentali e assoli di chitarre che non diventano mai stucchevoli.

Se, rispetto ai loro primi lavori, il sound di quest’album risulta un po’ meno spaziale, Shadows of the Sun è comunque un disco che sembra partorito lontano dalla Terra. Un lavoro magnetico che non può non piacere. Gli amanti del genere e i loro fan non resteranno delusi e chi, invece, non sa cosa aspettarsi da un duo di rock psichedelico farebbe bene ad ascoltarlo.
Un album costruito senza pretese eccessive ma che ha centrato in pieno il suo scopo, qualunque esso sia.

Tracce consigliate: Slow Down Low, In a Cloud