So che la notte non è come il giorno: che tutte le cose sono diverse, che le cose della notte non si possono spiegare nel giorno perché allora non esistono, e la notte può essere un momento terribile per la gente sola quando la loro solitudine è incominciata.
(Ernest Hemingway)

Nell’immaginiario collettivo Mark Lanegan è il cantante notturno per definizione. In realtà negli ultimi 30 anni, oltre ad aver cantato storie della notte, ha descritto le conseguenze del vivere intensamente il mondo della notte e tutto quello che ti rimane attaccato come pochi altri al mondo, uno dei pochi autentici sopravvissuti rimasti assieme a Nick Cave e Tom Waits. Sono passati 27 anni dall’uscita di The Winding Sheet, il suo primo album solista, e in questo 2017 torna con un nuovo disco di inediti, Gargoyle, pubblicato ancora per la Heavenly Recordings.

Chi lo segue fin dai tempi degli Screeming Trees e continua a farlo dopo 30 anni ha amato ogni fase della sua carriera e oggi non dovrebbe criticarlo per non essere più quello di una volta, anzi dovrebbe essere felice per la svolta positiva che ha dato alla sua vita, anche perché continuando ad essere quello di una volta a 52 anni forse non ci sarebbe neanche arrivato. Questo nuovo disco perciò dividerà quella parte di seguaci che non sono stati in grado di seguire ed apprezzare la sua evoluzione, perché non solo non è abbastanza rock ma è addirittura un altro disco
elettronico; chi invece lo ha amato incondizionatamente non potrà non fare lo stesso con questo capitolo della sua nuova carriera, iniziato nel 2012 con l’ottimo Blues Funeral.  Dal punto di vista strettamente vocale non è e non potrà più essere sullo stesso livello di Bubblegum, che viene menzionato ancora con nostalgia da chi si aspetta che dopo 13 anni la sua voce non si sia consumata, e fortunatamente (per lui) anche dal punto di vista dei contenuti è cambiato, visto che durante la scrittura e le registrazioni di quel capolavoro attraversava l’ennesimo periodo in cui faceva un uso pesante di droghe (i cui riferimenti sono sparsi per tutto il disco).

Da quando si è ripulito Lanegan ha iniziato ad essere più produttivo che mai (basta guardare quanti dischi sono usciti dal 2004 in poi, da solo e in collaborazione con svariati artisti) e la piega positiva si può sentire anche in quest’ultimo disco, ma non pensate che sia un disco per l’estate, perché Mark rimane sempre the man in black. Nonostante quanto appena detto, Nocturne, il primo singolo, è un viaggio al buio dal sound narcotico per le vie più infime e inospitali di una qualsiasi metropoli, guidati come un faro nella notte dal suo inconfondibile timbro baritonale su un beat in cui basso chitarra e synth non potrebbero suonare più malvagi.
La parte iniziale rievoca il primo Lanegan, quello marcio e perso che ha contribuito a creare l’aura maledetta che lo ha accompagnato per buona parte della sua carriera (Red lights, X-ray vision/Lowly drug is in my veins/Blood stained indecision/Holiness is burned away/Midnight, midnight calling/Color me insane….Somewhere else, two trains collidingThat’s what the sickness brought me to), con un ritornello in cui come un leone la sua voce torna a graffiare come ai tempi migliori (Dead right /All night/When you feel the serpent strike/Nocturne). Death’s Head Tattoo, che ha il compito di aprire l’album (e a cui segue il primo estratto sopra citato), è uno dei due unici brani veramente dark dell’intero lavoro, dal suono quasi industrial, simile anche per tematiche (Wild thing/See the monkey in the jungle swing/Canaray in the cavern sing/That the devil lives in anything) che siamo sicuri accontenterà anche i fan nostalgici di quel Lanegan pieno di demoni interiori che è stato per decenni (C’mon people/You know that I ain’t got the wherewithal/When California starts to crawl/Makes a poor man leave his home….And if I cry for you baby/Your death’s head tattoo made me/Pray for the last one standing/Holding a loaded gun/I can see her there under the golden sun). È chiaro che, anche se ripulito, dal punto di vista dei contenuti e degli scenari che evoca Lanegan continua ad essere tra i poeti maledetti migliori di tutti i tempi, su questo non si discute (Better the devil you know/Than the one that you don’t).

Fin da subito è evidente come abbia trovato anche in Rob Marshall (chitarrista degli inglesi Exit Calm) la spalla ideale per il continuo di questo suo nuovo percorso musicale, il chitarrista inglese è infatti co-autore di ben 6 delle 10 canzoni che compongono questo nuovo album (le rimanenti quattro sono opera di Alain Johannes). Dopo l’alta tensione dei due brani iniziali si passa alle atmosfere più rilassate di Blue Blue Sea, brano in cui la linea melodica è sorretta dal loop di un sintetizzatore che tra altri synth fa da tappeto a uno splendido armonium e al cantato in stile gospel che ricorda il suo primo album con i Soulsavers (It’s Not How Far You Fall, It’s the Way You Land), siamo solo al terzo brano ma qualitativamente la differenza è notevole rispetto al precedente album Phantom Radio, che suonava meno a fuoco di questo suo nuovo lavoro. In Beehive, secondo singolo estratto, ritroviamo l’amico e collaboratore Greg Dulli al moog e alla chitarra acustica (dopo i cori nel brano d’apertura) e Jack Irons alla batteria; con un Lanegan che canta spensierato come non mai (Beehive/Beehive/Honey just gets me stoned when I’m living/Bell rung/And stung/Honey just gets me stoned/Just gets me stoned). Oggi si sballa con il miele, segno dei tempi che cambiano anche per lui.  Sister è un’altra perla di questo disco (Sister of mine/Set the sky on fire/The savage kingdom is blind) ancora in territorio gospel, con organi profondi che si intrecciano alle minimali parti di chitarra di Duke Garwood e nel finale con un saxofono che contribuisce a creare un’atmosfera ancora più sinistra al brano (The morphine drugged the man who marooned/The captain steered the ship to ruin/The crow released the Crimson balloon/The morphine drugged the man who marooned).

C’è spazio anche per Josh Homme , che offre la sua voce in Emperor, dove chitarre stoner si fondono a un suono che volendo azzardare potremmo considerare quasi britpop, e il bello è che anche in territori non propriamente suoi Lanegan risulta credibile, non forzato o fuori posto. Questo cinquantaduenne di Ellensburg nella sua vita avrà fatto anche tante scelte sbagliate che spesso l’hanno portato a combattere tra la vita e la morte, tra quelle giuste però ci sono i musicisti di cui si è sempre circondato, molti dei quali amici prima che collaboratori, che anche in questo disco gli hanno disegnato percorsi lungo i quali muoversi come solo lui sa fare, perché voci del genere hanno bisogno di un corrispettivo musicale di altrettanto spessore, e in questo Alain Johannes e Rob Marshall hanno fatto un lavoro straordinario. Quest’ultimo è responsabile di un altro degli highlight del disco, Goodbye To Beauty, brano che può entrare di diritto tra i migliori mai scritti e interpretati dall’ex leader degli Screaming Trees, dove l’arpeggio di una chitarra acustica fa da sottofondo alle note del riverbero di una chitarra elettrica che sembrano scendere dal cielo, l’addio alla bellezza cantato non con rassegnazione ma con la tranquillità e la consapevolezza di chi affronta il passare del tempo come una benedizione, nella sua semplicità è una canzone da brividi. Nessuno si sarebbe mai immaginato di ascoltare, un giorno, una canzone drum and bass in un album di Lanegan, e qui ci ricolleghiamo al discorso fatto in precedenza, anche quando sconfina in territori mai esplorati prima, la grandezza e la maestrìa sua e di chi lo accompagna è tale da creare qualcosa di magico. Dark wave mischiata al drum and bass, questo è Drunk On Destruction, un racconto drammatico su di un beat veloce arricchito da una pioggia di chitarre elettriche riverberate che prendono il volo, un blues elettrico/acido e moderno (Death is my due/How I never wondered/Turning the screw/Into the dirt/And now I’m going under/A silver haze bleeds from the sun/I am the target and the gun…Blackout the day/And every constellation/The driving rain has come to drown/All illumination/A sip of bitterness at first/Becomes unending with its thirst), emozionante anche in una vesta decisamente inusuale e inaspettata (Drunk on destruction/Feel, I feel I’m fading away).

Ci troviamo di fronte ad uno dei suoi dischi solisti migliori di sempre, inevitabilmente diverso dai lavori passati, ma non per questo inferiore, è l’evoluzione migliore che potesse fare a questo punto della sua carriera, e chi si aspetta che suoni ancora come ventanni fa dovrebbe rendersi conto che ha percorso in lungo e in largo lo stesso stile per quasi tre decenni, comprensibile quindi la voglia di intraprendere nuove strade. La spettrale First Day Of Winter è l’ennesima slow ballad gospel in cui vengono dipinti scenari quasi apocalittici (There’s nothing left in this town/Just the ghosts that drag me around/In sorrow…See the rain down window run/Chills my veins now it’s begun/The first day of winter), in un’immersione di sintetizzatori e chitarre che dolcemente si alternano alla voce in sottofondo di Alain Johannes; la conclusiva Old Swan alza un po’ i ritmi ma rimangono sempre le chitarre riverberate dal suono etereo che ci accompagnano alla fine di questo stupendo nuovo album del Reverendo Lanegan, che in questo brano suona positivo e felice come non mai (Clean/New roads unfurled/Light of the world/Redeemed/Your humble child/Don’t leave me here/Let me come with you…Clean/Through the eternal/Through dead seasons/Sail to the sun/My mother and my queen/Honest and serene). All my darkness cleaned away, come non essere felici per lui? Siamo fortunati a poter godere ancora delle meraviglie che ci regala l’ultimo grande esponente di una generazione andata perduta, Cobain e Staley sono sicuro che avrebbero desiderato invecchiare allo stesso modo, e dopo tutto quello che ha passato Lanegan dobbiamo considerare come un tesoro la sua presenza su questo pianeta. Questo nuovo album è tra i migliori della sua intera carriera, grazie alla voglia di reinventarsi e sperimentare anche correndo dei rischi, cosa per niente scontata considerando che un artista del suo calibro non ha più niente da dimostrare a nessuno, ma è l’amore e la passione per la musica il motore che continua a farlo andare avanti e ad invecchiare meravigliosamente. Proprio come un gargoyle, ce lo immaginiamo scrutare il mondo dall’alto, pronto a raccontare – nel suo modo unico e inconfondibile – tutto quello che gli passa sopra, sotto e attraverso.

È di notte che è bello credere alla luce, e siamo felici che dopo decenni vissuti nel buio più profondo, Lanegan l’abbia finalmente trovata.

 Tracce consigliate: Sister, Goodbye to Beauty