37627_111114_1923_g Etichetta: Neon Gold Records / Atlantic Records
Anno: 2015

Simile a:
Lana del Rey – Ultraviolence
Sia – 1000 Forms of Fear
Robyn – Body Talk

In una zona d’ombra degli iPod di molti, tra la discografia dei Guns’n’Roses (costantemente skippata quando compare in “riproduzione casuale”) e playlist originalmente chiamate “misto-mare 1”, si colloca una collezione della quale nemmeno i più impavidi parlano: la collezione di tamarrate. Questa non conosce distinzione di genere ed è costituita dalla parte cafona ed ignorante del vostro i-pod, quella che ascoltate quando andate a correre o siete in palestra, quella che mai e poi mai vorreste che il mondo scoprisse.
Era il 2010 e nella mia zona d’ombra tamarra era comparsa Marina & the Diamonds con Hollywood da The Family Jewels. Vorrei tanto fosse una bugia ma è tutto vero: Marina Lambrini Diamandis aveva colpito tutti con la sua voce scura e profonda ed il suo pop non sempre scontato. I fans della cantante greco-britannica avevano iniziato ad aumentare come funghi nel tempo di un battito di ciglia.
Dal 2010 Marina ha cambiato un paio di pettinature, lanciato un paio di EP, una marea di singoli, un album ed è tornata con Froot.
Inizialmente pensavo Froot fosse l’omanotopea che si usa nei fumetti per indicare i peti: “che ironica Marina, non si prende troppo sul serio” ho pensato, chiaramente mi sbagliavo, m’è costata una certa fatica trovare il significato del termine (sul piccolo vocabolario d’inglese I Garzantini non c’era) ma googolandolo è venuto fuori che vuol dire “awesome”, ficata? È finita l’ironia.

The Family Jewels era una stretta di mano sotto forma di musica: una presentazione ironica, a volte pungente, nella quale spiccavano le potenzialità canore della bella cantante.
Electra Heart (2012) era un cambio di rotta, una sorta di maschera pirandelliana tramite la quale la performer personificava se stessa trasfigurata dalle sue relazioni amorose e da come avrebbe voluto essere.
Froot vuole essere un secondo appuntamento nel quale Marina prova a presentarsi per ciò che è. Numerose sono le vesti nelle quali l’abbiamo adocchiata, ma qui vuole mostrarsi in modo più semplice ed onesto, impossibile non notare un contrasto a livello d’immagine rispetto ad Electra Heart. Ma non è l’unico cambiamento: infatti a più riprese la cantante ha voluto ribadire come tutti i testi siano stati scritti di suo pugno per testimoniare una nuova e riscoperta maturità, sottolineando inoltre come abbia creato questo album con le sue sole forze (anche se vegliata da David Kosten – hai detto niente).

Happy, brano d’apertura, è un’inaspettata pseudo ballata al pianoforte, che probabilmente vuole simboleggiare la recentemente ritrovata attitudine autoriale della cantante. Dopo le tormentate cime tempestose affrontate sentimentalmente nell’album precedente finalmente la felicità, quale modo migliore per dimostrarlo? Una triste intro al pianoforte! “I’ve found what I’ve been looking for in myself” viene apparentemente contraddetta poche strofe dopo da “found life worth living for someone else”… sapete chi è? Gesù, quando finalmente avevo realizzato che la svolta intimista era anche una svolta spirituale (mi ci sono voluti 2:22 sec circa) è partito il coro. Il coro ed un “I believe”.
Il coro.
La traccia seguente è quella che da il nome all’album ed un basso slap super groovy ci accoglie nel colorato mondo di Marina. Mentre tentiamo di riprenderci dalle dichiarazioni un po’ cielline di prima (tra lei e Lana le ragazze ritroveranno la loro fede cattolica, lo sento) ecco che arriva la citazione dance ’70s che avrebbe potuto essere interessante se e solo se qualcuno (con dei caschi) non l’avesse proposto con un leggero anticipo. La cantante sussurra frivolamente “hanging around like a fruit on a tree, ready to be juiced”, un frutto che attende di essere raccolto e spremuto.
Marina, Marina, Marina, l’abbiamo visto tutti il video… qualcuno ti raccoglie, sul serio.
Con grande fatica uccido la tredicenne butterata che è in me, tentando di non cogliere allusioni sessuali in questo marasma di allegorie provocanti, ma so che ci sono.
Come un testimone di Geova che si introduce in casa tua tenendo il piede nella porta questa canzone è un antipatico demonietto che ti entra nel cervello e ci rimane per almeno un paio d’ore, ma tu proprio non vuoi.
I’m a Ruin è il pezzo che più di tutti ha il sapore amaro di un’occasione mancata: l’intro con quelle chitarre delicate, la voce emotiva, alle quali gradualmente si aggiungono delle percussioni pulite (Jason Cooper ha fatto le percussioni dell’album, Jason Cooper!) viene soffocato dall’attacco che come un distruttore elimina tutti gli equilibri trasformando il pezzo in qualcosa che ricorda una colonna sonora per un film di Walt Disney, l’aggettivo radiofonico non era sufficiente.
Immortals grazie al suo testo semplice ed alle atmosfere  inaspettate (a tratti idm) è forse il brano che più di tutti si avvicina a quella dimensione personale alla quale la cantante aspirava, ricorda molto i beat e gli arrangiamenti di The Family Jewels ma con qualcosa di più onesto, forse a livello di profondità del significato e di corde toccate, essendo incentrato sull’importanza di lasciare un segno nella vita delle persone che incontri.

Brutta bestia le aspettative: tessere le lodi di quello che viene definito un album introspettivo e maturo che in realtà si rivela un altro lavoro che dimostra una certa mancanza di sostanza. Molti dei testi dichiarati come profondi rimangono tutto sommato nella superficie di qualcosa che se indagato avrebbe potuto essere molto più apprezzabile (soprattutto grazie alle influenze 80’s-90’s che si percepiscono in certi brani durante), ma tutto ciò che rimane è un forte senso d’insoddisfazione dovuto al fatto che le suggestioni e la poderosa voce della cantante escono raramente.
Ascoltare quest’album dall’inizio alla fine è come fare una dieta di sole caramelle: decisamente troppo zucchero.

Su Marina però niente da dire, voto 10+:
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Tracce consigliate: Immortal