Il problema centrale di Teatro d’ira – Vol. I e dei Måneskin è sempre il solito, ma di tanto in tanto si smette di focalizzarlo; o meglio, come nelle migliori pubblicità, pare proprio che ci si lasci accecare dai proclami, dai brillantini e dal tanto rumore, elementi che distolgono l’attenzione dalla natura estremamente posticcia del rock che ‘sti quattro ragazzi propongono. Il fatto è che, semplicemente, le otto tracce dell’album (la cui copertina non è un volantino del profumo Terre d’Hermès) sono un pappagallo che ripete sotto ogni punto di vista i classici del rock – e per classici del rock si intendono i singoli rock più famosi dei gruppi rock più famosi della storia del rock. Lo diciamo un’altra volta? Sì: rock. Lo ripetiamo all’infinito perché questa parola è un’ossessione, ascoltando Teatro d’ira.

C’è il rock da pubblicità di suv tedesco all’apertura del disco, quello ZITTI E BUONI che ha trionfato al Sanremo senza pubblico, un brano che è stato accolto per lo più con un “eh, ma avevamo bisogno di questa energia!“; di quale energia parliamo? Dell’energia della mummia (rockeggiante) resuscitata, alla quale evidentemente ci sentiamo vicini, visto che da un anno ci sentiamo mummie in attesa di resurrezione, ma questa analogia non è un valido motivo per nascondere la retorica fasulla e la scolasticità del brano.
C’è poi il rock che vuole essere generazionale in VENT’ANNI, ed effettivamente lo è, per la generazione nata e cresciuta con Carosello (il programma televisivo, ndr). C’è il rock poetico in CORALINE; ma costei, Coraline, come la collega Marlena, simbolo non si sa bene di cosa, perché dovrebbe emozionarci? Boh, nel dubbio anche qui il chitarrista gli dà giù con assolo rabdomante di lacrime.

La chitarrona smette di raccogliere lacrime e ripicchia con LIVIDI SUI GOMITI, che ci dà subito una conferma dopo il primo indizio con ZITTI E BUONI: i Måneskin sono incazzati tantissimo, con chi? Non si sa e non ci è dato sapere, ma come si faceva su Facebook, e come lo fanno ancora oggi gli immigrati digitali, i Måneskin ce l’hanno con un generico “loro”, e a questi poveracci, somma di un generico “tu”, continuano a dirgliene di tutti i colori, come testimoniano le starnazzate iraconde in In nome del padre. Ed infine ci sono i Måneskin versione internazionale di FOR YOUR LOVE e soprattutto di I WANNA BE YOUR SLAVE, in cui sembra che una cover band degli Arctic Monkeys abbia assoldato alla voce Fausto Leali, o comunque un frontman con tanta raucedine in gola.

Ora, sicuramente ciò che segue è viziato dal fatto che di recente ho finito il rewatch di Mad Men, serie tv che ha come ambiente il mondo pubblicitario americano degli anni ’60; e questo aureo prodotto del piccolo schermo, se terminato proprio a ridosso dell’uscita di Teatro d’ira – Vol. I, influenza incredibilmente l’ascolto del disco: una volta finito di ascoltare il nuovo album dei Måneskin, infatti, non si può dire altro se non che funziona come funzionano le televendite che Giorgio Mastrota ci propina in tv da eoni.

Ho ascoltato tutto questo primo volume di un progetto che consacrerà definitivamente la band fresca vincitrice di Sanremo 2021 e, facendolo, mi sono trovato a pormi le stesse domande di quando ogni volta credo di aver ceduto alle moine stridule di quel pelato maledettamente convincente, che suonano tipo: “Voglio davvero dormire su questo materasso Eminflex?“, “Voglio davvero nutrirmi di pasti cucinati con pentole Mondial Casa?”. Vien da sé che ascoltando i Måneskin il dubbio attanagliante diventa questo: ma è così necessario che io mi faccia piacere questa musica il cui unico posto consono sarebbe il museo delle cere Madame Tussauds?

La risposta è semplice: no.

No” perché questo rock etimologico, simbolo di ‘durezza’, è una posa esclusivamente d’esposizione; è una retorica stanca, fatta di rabbia costruita e di presunti virtuosismi musicali che in realtà, su YouTube, un bambino, molto probabilmente di origine asiatiche, esegue con i piedi ad occhi bendati.

Il fatto che i Måneskin, così giovani e dall’indubbia e rara capacità di intrattenere un palco, non abbiano trovato altro modo per esprimersi se non quello di fare la copia dei Greta Van Fleet che a loro volta sono una copia con cinquant’anni di ritardo dei Led Zeppelin, li rende purtroppo un gruppo per niente bello. Ma in fondo a loro poco importa; in fondo nelle case è pieno di materassi Eminflex.