Ammesso che non vi venga una paresi facciale cercando di pronunciarne il nome, giuro che non vi pentirete di aver ascoltato i LNZNDRF che, pur rispondendo sia alla categoria “supergruppo” che a quella “nome impronunciabile” – prerogative degli ultimi tempi, pare – sembrano usciti da una dimensione totalmente differente, che ci fa dimenticare la parola side project e ci fa quasi credere di stare ascoltando una band che lavora insieme da almeno un decennio.

Con qualche vocale in più i Lanzendorf non sono altro che Ben Lanz, polistrumentista dei Beirut, e Scott e Bryan Devendorf, rispettivamente basso e batteria dei National. Quando si parla di progetti paralleli si finisce sempre inevitabilmente a pensarli in termini derivativi – ne avevamo parlato anche qui a proposito degli EL VY – ma LNZNDRF è uno di quei dischi dal carattere così forte da non aver bisogno né di cornici né di appoggi. Infatti non aspettatevi altri confronti con i National o con i Beirut, perché in questa recensione non verranno più nominati.

LNZNDRF è un lavoro coerente e compatto, che nei suoi otto brani e quaranta minuti dice esattamente quello che si era ripromesso di dire, senza peccare di pretenziosità rischiando di strafare. In apertura, un drone si dispiega lentamente con la strumentale Future You: giusto in tempo per un’immersione lenta che siamo poi risucchiati prima dal basso di Scott Devendorf e poi dalla chitarra di Lanz. L’album continua dimostrando di saper conservare costantemente un livello eccezionale riuscendo continuamente a rinnovarsi: Beneath the Black Sea ne rappresenta il lato più post-punk, non solo nella voce baritonale e riverberata di Ben Lanz, ma anche nelle percussioni sorde e ripetitive di Bryan Devendorf; dai suoni memori dei primi New Order invece si passa al falsetto della più onirica Mt Storm, per poi riprendere leggerezza con il funky di Kind Things.
Lo shoegaze dei LNZNDRF abbraccia varie influenze nel corso dell’album, ed è questo mix ben pensato e ben prodotto che ne rappresenta il punto di forza: abbiamo parlato di post-punk ma non possiamo non citare la psichedelia di Hypno-Skate e l’equilibrio che Monument trova tra dreampop e voci distorte.

Sembra quasi impossibile trovare punti deboli per questo album: è vario senza essere incoerente; è pregno di influenze ma sa come e quando usarle; è forte ma equilibrato nelle scelte stilistiche; sa quando alternare il cantato allo strumentale; sa quando esplodere e quando abbassare i toni, senza per questo scendere di livello o creare momenti morti.
Sì, stiamo pur parlando di un trio di professionisti, ma chi si aspettava di trovarsi davanti una vera e propria band?!

Tracce consigliate: Monument, Beneath the Black Sea, Mt. Storm