I Jinja Safari hanno trascorso l’ultimo anno e mezzo in giro per il mondo a suonare (toccando, tra le altre, India, Cambogia, Indonesia e Uganda) e a trarre spunto dalla cultura musicale radicata tra Sudest Asiatico e Continente Nero.
Da questa base nasce l’omonimo debut del gruppo australiano, già forte del successo di due Ep e di live-show frizzanti e coinvolgenti, apprezzati, oltre che in madrepatria Australia, anche in UK e USA.
Apple apre le danze, e non solo metaforicamente parlando: synth solari e percussioni che più tribali non si può ci catapultano direttamente nell’Africa più nera, fiati gioviali e riff di chitarra vogliono portare quell’estate che mai come quest’anno si sta facendo attendere. Climax e cori si alternano a momenti più minimal, in cui sono le pelli percosse a farla da padrone. L’atmosfera è figlia delle terre più selvagge ed è gestita sapientemente in tutti i suoi livelli di orchestrazione, tenendosi sempre attentamente al di qua della linea che separa “tanti strumenti” da “baccano indistinto”.
Stessa formula sorridente e ancestrale anche per i potenziali singoli successivi (Dozer, Toothless Grin, Oh Benzo), sempre arricchiti da qualche elemento che li distingue dagli altri, vuoi per un flauto di pan, vuoi per una voce effettata.
Gioia, sorrisi, balli, feste, estate, sole e tante cose belle, ma dopo quattro tracce che si mantengono su questo trend nasce il timore di trovarsi di fronte alla compilation 2013 Bluvacanze, in cui da un momento all’altro potrebbe fare il suo ingresso in scena l’odioso capo animatore che invita la gente a fare l’acqua-gym.
Fortunatamente si percepisce una virata già in Harrison, spezzata da cori al giro di boa, per essere poi ricostruita delicatamente nella seconda parte, portando a galla un lato pacato dei Jinja Safari che sorprende. Just One Thing è la naturale prosecuzione di quanto iniziato prima: pochi accordi di pianoforte e synth atmosferici, voci armonizzate in maniera impeccabile e crescendo moderato, guidato da poche note di chitarra e un brevissimo protagonismo delle sei corde stesse.
Con le successive Mombassa On The Line, Plagiarist e Source Of The Nile capiamo che la pausa era solo temporanea e che i Jinja ci tengono a farci tornare a ballare, ma purtroppo l’entusiasmo è di molto calato e la formula tribal inizia un po’ a stancare, non coinvolgendo quanto in apertura, seppur intermezzata talvolta da sporadiche decelerazioni figlie di arrangiamenti articolati, talvolta da filler risparmiabili (West Coast Rock).
L’opera prima della band australiana si chiude con la tranquilla Walls (che pare uscita direttamente da Hummingbird dei Local Natives) e Bay Of Fires.
Proprio quest’ultima, traccia migliore del disco, risolleva un po’ le sorti di un album che dava l’impressione di ripetersi inesorabilmente nella seconda parte come fotocopia delle prime sei tracce.
Nonostante ciò alcuni pezzi si candidano a potenziali singoli dell’estate 2013: l’originalità e la freschezza della proposta – a cui va aggiunta la facilità di ascolto – sono innegabili e divertenti, gli adagio danno poi ulteriore prova della validità del gruppo, ma è evidente che i Jinja Safari debbano riuscire a calibrare meglio i tanti elementi messi in gioco per riuscire a non svigorire il loro sound, unico nel suo genere, e ad aggiungere quel qualcosa in più che non infiacchisca l’ascolto sulla lunga durata.
Tracce consigliate: Bay Of Fires