Eterea e dallo sguardo destabilizzante, Jessica Pratt sforna il suo secondo album negli stessi giorni in cui esordisce un’altra cantautrice americana con cui condivide una sillaba del cognome e davvero nient’altro, nonostante l’assonanza che ha spinto molti a un confronto. Se del debutto di Natalie Prass vi ha lasciati perplessi la scelta di farcire il sound sforando spesso il limite dello stucchevole e tradendo una produzione invadente alle spalle, Jessica è l’antidoto che fa al caso vostro. Dal suo studio domestico nella mitologica San Francisco tira fuori un disco fatto essenzialmente di voce e chitarre acustiche. E’ un folk cantautoriale che si nutre di antenate illustri (Joni Mitchell, Marianne Faithfull) ma l’approccio compositivo ha un ingrediente segreto di ampio utilizzo contemporaneo, che potremmo definire “hauntologico”, mutuando dalla filosofia un termine già utilizzato da Simon Reynolds per descrivere la tendenza di certe produzioni anglofone a solleticare il ricordo di sensazioni dimenticate e stimolare in chi ascolta una indefinita nostalgia per il passato.

Quello che all’inizio dell’ascolto di On Your Own Love Again è solo un sentore diventa poi effetto immediato in Jacquelyn in the Background: il suono che a un tratto si affloscia come una musicassetta ascoltata al Walkman con le pile scariche é un flashback repentino, un escamotage che ti scaraventa in un passato sufficientemente remoto da diventare imprecisato, e così succede che, prima ancora che il disco giunga al termine, mi metto a cercare un mangianastri rosa che avevo da bambina, un cazzo di cimelio analogico sparito dalla mia vita da un paio di decenni di cui avverto ora un insensato bisogno.
In realtà si poteva pregustare una certa retromania sin dall’uscita del singolo, che ha anticipato l’album di qualche settimana, colonna sonora perfetta per un vecchio videotape amatoriale, dal sapore familiare e rassicurante per chiunque sia stato tirato su a pane e VHS a cavallo tra gli anni ‘80 e i ‘90. Non faccio un esempio a caso: la prima volta Back, Baby l’ho ascoltato così, montato su un video di Youtube che è poi stato rimosso, che pur non avendo affatto l’aria da videoclip ufficiale avrebbe potuto tranquillamente esserlo, combaciando perfettamente col mood delle incisioni casalinghe di Jessica. Lei da parte sua, pur ribadendo la devozione alla bassa fedeltà, si dimostra più matura negli arrangiamenti rispetto al self-titled dell’esordio nel 2012. Complice il suo singolare timbro vocale, la Pratt confeziona stavolta un piccolo incantesimo fatto di pochi elementi deliberatamente sbavati e incuranti di dimostrare perizia tecnica, per una mezz’ora di morbida malinconia in cui crogiolarsi.
Il risultato è estatico tanto quanto evanescente. Al termine dell’ultima traccia, l’incanto scoppia come una bolla di sapone prima di riuscire a depositarsi da qualche parte nella memoria. Di On Your Own Love Again conserverai un generico retrogusto vagamente agrodolce e i virtuosismi del ritornello di  Back, Baby, che si distingue per linea vocale più strutturata e in generale per un pizzico di cura in più, e senza per questo risultare meno evocativo degli altri episodi, in un equilibrio che il resto del disco non possiede.

Se Natalie Prass ti ha fatto esclamare un esasperato “No, troppo!”, Jessica rischia di farti scappare un dispiaciuto “Oh no, troppo poco”. D’altra parte però ti sembrerà difficile immaginare questa voce da usignolo incorniciata in sonorità diverse. Alla fine della storia il rischio è che questo lo-fi sognante che sembra essere la naturale essenza di J. possa esaurire il proprio potere e a lungo andare trasformarsi in una gabbia stilistica in cui rimanere incastrati. Attenderò il terzo atto sperando che non accada. Nel frattempo mi cerco un mangianastri nuovo su Amazon.

Tracce consigliate: Back, Baby