Quanto hype attorno al debutto della giovane Natalie Prass, quante attenzioni da parte della critica internazionale, quanto clamore e, soprattutto, quante lodi. Una marea di votoni in lungo e in largo, di qua e di là dall’oceano una pioggia di elogi per il songwriting della ragazza classe 1980, originaria di Cleveland. Date queste premesse potete immaginare le aspettative createsi prima dell’ascolto. Inutile nascondersi, lo so che avete già visto gli album simili e il voto, e molti di voi saranno già sul piede di guerra, aspettando di leggere le mie mille e più fandonie. Caricate i vostri polpastrelli di insulti, sto per raccontarvi perché l’eponimo album Natalie Prass non mi ha convinto.

Si inizia con My Baby Don’t Understand Me, una delle tracce migliori seppur lasci già intravedere su che strada andrà a parare il resto del lavoro. La nostra Natalie cinguetta sui dolci accordi di un pianoforte che si trasforma velocemente in un violoncello, poi in un ensemble di ottoni, presto accompagnato da una batteria, ehi ma c’è anche un flauto traverso nella cuffia destra! Ma quello nella sinistra è forse un controcanto? E vogliamo farci mancare la chitarra? Certo che no, bisogna riempire i pochi secondi di vuoto rimasti. La successiva Bird of Prey inizia un po’ più scarna, ma in men che non si dica, anche qui, subentrano i tromboni a destra e gli archi a sinistra sulla stessa linea melodica, e intanto Natalie canta e zompetta sul pianoforte con un violino che la segue come un’ombra (confezionando comunque un ritornello riuscitissimo). Your Fool e ancora un piano salterino, questa volta accompagnato da gioiosi clap; e poi sempre gli archi zuccherosi e le trombette dei balocchi. Un trittico già fin troppo “infarcito” ma non ancora del tutto indigesto. Con Christy però qualcosa cambia: compare il simbolo della Disney, Natalie indossa un vestito con le spalline a sbuffo e si inoltra in un misterioso e oscuro bosco. Arpa a sinistra, archi a destra, la nostra principessa si accascia a terra, triste, dove sarà il suo principe azzurro? Ehi ma arrivano i 7 nani che con un riff di chitarra la portano nella loro casetta, saltellando mentre il sole torna a splendere. Ma è solo un momento passeggero: prima di coricarsi la dolce e triste Natalie pensa al suo amato cantando Violently. Amato che compare disegnato nelle nuvole, guardando fuori dalla finestra con espressione abbattuta sulle note di Reprise, pezzo non cantato ma “dialogato”, e intanto intorno gli archi e gli ottoni e l’arpa e la batteria e il controfagotto e i campanellini e i clap clap e gli animaletti del bosco e il candelabro e il servizio da tè.
E poi la conclusione, ragazzi, It Is You: la magia del lieto fine. Il principe arriva da lontano, sul suo cavallo bianco, e in sala le bambine a fatica trattengono le lacrime. Natalie corre incontro a quell’amore che pareva impossibile, saltellando, tenendo con le mani quella gonna ottocentesca che le impedisce i movimenti, piroetta su se stessa e slancia le braccia al ritmo degli archi e degli ottoni, di quel flautino che “piripiripiripiri” e di quell’arpa che “dlindlindlindlin” e di quel contrabbasso che “pumpumpum”.
La carrozza scompare in lontananza, Natalie si gira un’ultima volta, salutando i suoi magici amici che per sempre la porteranno nel cuore.
E vissero tutti felici e contenti.
Fine.
Meno male.

Natalie Prass è un album non brutto e non insufficiente, ma oltremodo pomposo; gli arrangiamenti barocchi, figli dell’horror vacui dei produttori, sommergono ogni secondo dell’ascolto, stuccano e annebbiano il talento e l’impronta personale dell’artista. Le radici musicali sono quelle del songwriting tipicamente a stelle e strisce, arricchite di screziature folk con qualche slancio vocale tendente al soul; nulla di nuovo, dunque. Ma ad essere in prima linea sono le impalcature della produzione, troppo calcate, troppo ingombranti, e spesso risibilmente più vicine a Glee e ai film Disney che a quello che probabilmente è Natalie stessa. Il risultato finale puzza purtroppo di costruito a tavolino, e qualsiasi possibilità di colpire nel segno per originalità e sincerità viene debellata. Detto in parole povere: Angel Olsen e Sharon Van Etten, con le loro chitarrine, se lo mangiano ad occhi chiusi questo disco. E che non vi passi neanche per l’anticamera del cervello di accostare tutto ciò a Joanna Newsom, vi prego.
Non mi è arrivato nulla durante l’ascolto, nulla è rimasto dopo. Mi dispiace Natalie, forse è un problema mio, ma il mio cuore è rimasto freddo.

Traccia consigliata: Bird Of Prey.