Un costume da vampiro scucito, il trucco sbiadito di due giorni, capelli spettinati e incisivi di plastica troppo goffi da incutere timore. La tinta rosso sangue, invece, è sangue mestruale.

È il sangue che viene versato naturalmente. Il più puro, potente, banale e insignificante allo stesso tempo. Ma il più terrificante.

Così la piccola fiammiferaia Jenny Hval parla di questo momentum fisiologico, che in Blood Bitch è un’esperienza rituale, un pezzo di teatro immersivo curato da una personalità hyper-produttiva e rinchiusa nella sua intima bolla. Al di là delle discipline che abbraccia questo quinto lavoro in studio, tra simbolismi e mitologia, c’è un infallibile politically incorrect che ha trasformato la sua autoironia, simile a quella di una Grimes agli esordi, nella forma d’arte che cerca incessantemente nel suo “periodico” post-war Nordic silence (Period Piece). In fondo non c’è nulla di male a parlare del sangue sessuale perché come tutto,

 Alla fine del giorno, è sempre la stessa cosa.

Dove c’è taboo e folklore, c’è Jenny, che dice di essere stata posseduta, durante il ciclo, da una voglia incessante di toccare tutto ciò che la circondava. Da qui seguono le infinite sperimentazioni sull’album (aka registrare un video di una donna che mangiava cioccolata durante il suo periodo) e sulla sua voce, che esce splendidamente rarefatta: è un piacere sentirla recitare tra le sue metafore (Untitled Region), parlare con la sua psiche (The Great Undressing), rappare a rilento (Period Piece), o semplicemente cantare con il suo timbro celestiale sui Boards of Canada (Secret Touch).

Che i lavori della norvegese siano da sempre artisticamente impegnati non c’era alcun dubbio, ma l’io letterario stavolta ha preso il sopravvento sulle chitarre stridenti e dreamy di Apocalypse Girl, focalizzandosi su una palette di synth cosmici, note isolate e atmosfere noir in stile Haxan Cloak. Jenny ha plasmato l’intera composizione di Blood Bitch e le sue complesse linee vocali con la stessa autenticità e avanguardia di un colosso come Foster Wallace, entrambi figli e portavoci di una cultura postmoderna divoratrice di contenuti, che nasce dai ricordi dell’infanzia e si tramuta negli incubi e nel fanatismo dei trent’anni.

Il romanzo concettuale di Jenny Hval apre all’idea di una sessualità astratta e rituale, di un’amore intrappolato nelle sue trame capitalistiche e che non può fare a meno di vivere tra parodia e catastrofismo.

Tracce consigliate: Conceptual Romance, Secret Touch, Period Piece