Pause, il nuovo album di Indian Wells, è anche un altro album. Molto banalmente: è il secondo album di Four Tet, uscito agli inizi del duemila, praticamente una vita fa. Ascoltando il precedente The Night Drop, tra i sample delle partite (sì, tra i campioni ci sono battute e scambi e altre cose che fanno rumore, nel tennis) si nota subito l’influenza del produttore inglese nei momenti più sognanti e qualcosa rimane anche qui, nonostante nel progetto prevalgano ritmo e cassa dritta, già dal pezzo d’apertura Lipsia.
Un incrocio tra ambient e IDM insomma, lontano da atmosfere troppo scure ma sicuramente non gioviale, Pause nasce – dopo una gestazione lunghissima di tre anni – da quelle stesse influenze estere (Lapalux, Shlohmo, per dirne due su un milione) di buona parte dei suoi connazionali, incanalandole in una direzione precisa, con poco/nessuno spazio per divagazioni e mantenendo un calore e una spiritualità costanti; qui con spiritualità mi riferisco a quella cosa che si prova ascoltando Know Where.
Una continuità che si ritrova passando dalle prime tracce più ritmate al dittico Pause/Vignelli (con un omaggio al designer italiano morto lo scorso anno)-Games in the yard (con la collaborazione di Matilde Davoli alla voce e Yakamoto Kotzuga alle chitarre) che mostrano il lato più ambientale e melodico – malinconico a tratti – del progetto.
Senza fare una descrizione traccia per traccia di un disco che ne conta sette e dura poco più di trentacinque minuti, si potrebbero anzi già tirare le somme: Pause è bello. Non entrerà nella storia della musica elettronica mondiale – o nazionale, considerando che i riscontri maggiori IW li ha probabilmente all’estero – ma è fatto bene, ha una personalità molto forte e non c’è un secondo che faccia storcere il naso. Le uniche critiche si possono muovere alla scelta di far iniziare ogni traccia allo stesso modo (cioè piano e poi un crescendo) e a quella che mi sembra una scarsa ambizione, cioè, la solidità intesa come omogeneità e assenza di sbavature è il punto forte dell’album, ma è anche il suo limite. Spero insomma di sentire qualcosa di nuovo tra un po’, magari non tre anni, che guardi a se stesso con meno rigore. Nel frattempo con Pause si balla e si prega.