Post Pop Depression arriva dopo uno strano momento per Iggy Pop: dopo decine di anni di dischi rock deludenti e un dittico francofono-jazzistico (Aprés e Préliminaires) di cui ancora non si è capito se si può fare a meno, ecco che James Osterberg ci si ripresenta davanti con un disco affidato ad un produttore-musicista. Dopo che Pop si era inventato il punk con gli Stooges, per The Idiot e i successivi, David Bowie se l’era portato in Europa e l’aveva praticamente riplasmato contribuendo a creare dei capolavori; dopo quasi quarant’anni è Josh Homme a mettere le mani sulla produzione e sugli strumenti, accompagnato dal fido Dean Fertita (anche lui nei Queens of the Stone Age, e nei Dead Weather) e da Matt Helders (batterista degli Arctic Monkeys, che forse gli doveva un favore dopo Humbug).

Da subito, con l’inizio inquietante di Break Into Your Heart, ci si accorge che la voce di Pop ha perso la sua ultima attitudine da crooner per tentare di farsi ancora graffiante, con risultati non sempre soddisfacenti. Nella prima metà del disco ogni tanto si ha persino l’impressione di sentire un Osterberg sovrainciso su una base strumentale estranea a lui, con il risultato finale che suona come un remake più musicale (e menomale) del misterioso oggetto Lulu dei Lou Reed coi Metallica. Fortunatamente sono delle impressioni momentanee, ma che lasciano interdetti. La seconda metà dell’opera, introdotta dalla strana coda orchestrale di Sunday, ingrana un po’ meglio, con un onesto songwriting che deve un po’ meno ad Homme, e con l’orecchio che si è abituato al sound rock dai contorni stoner. Si arriva alla fine, passando dal brutto retrogusto ispanico-western di Vulture e dalla multiforme German Days, e si ritrova uno spirito quasi punk nella chiusa rabbiosa dell’ultima Paraguay, traccia più riuscita, in cui Iggy torna a urlare, senza cantare, verso nessuno o verso tutti, in uno sfogo che ricorda la sua attitudine autistica-autolesionistica degli anni degli Stooges o quel video buffo di lui che si arrabbia con la musica techno (A CASO).

Il disco è sì di Iggy Pop, ma ogni tanto pare di ascoltare degli sviluppi di bozze di pezzi per i Queens of the Stone Age, delle b-side mai rilasciate, o un’edizione speciale delle Desert Sessions. Sicuramente la produzione di Homme, nel suo studio nel deserto di Joshua Tree, è pesante, ma la realtà è un po’ più complessa: Homme e Pop si scrissero scambiandosi parti di versi e testi, e si incontrarono decisi a fare musica insieme, ognuno con le proprie idee musicali. Vista la caratura dei personaggi questo è un pregio, perché ha consentito ai due di esplorare la vicendevole scrittura musicale; allo stesso tempo ha limitato però la creatività dentro il recinto Osterberg-Homme (largo, ma pur sempre recinto), senza possibilità di espandersi verso l’esterno, provare cose nuove. Il risultato è un mix pallido.

Vista la tendenza negli ultimi album rock di Pop potremmo pure dire che quest’ultima opera è un passo in avanti, ma “andare meno peggio” non è una qualità positiva. Probabilmente ultimo disco di Osterberg (a quanto ha affermato lui stesso), Post Pop Depression sembra essere destinato a restare un album mediocre, “quel disco che ha registrato con Josh Homme”, qualcosa che non riascolteremo tra un anno. Pop viene a confrontarsi con la sua vecchiaia e con le cartucce che ancora può sparare uno come lui, azzeccando qualche traccia ma con un risultato finale mediocre.

Traccia consigliata: Paraguay