Com’è lo stato di salute del punk? È vivo, è morto, s’è imborghesito? Pensatela come volete sull’argomento, perché qui invece si parla dell’esatto opposto, di un genere che non solo non muore ma non accenna nemmeno a smettere di trovare nuovi interpreti. Ed è il blues, antimodaiolo per nascita e infine di grande tendenza anche per il pubblico mainstream da almeno… 60 anni? Da una decina di anni ormai, invece, il blues si fa portare a spalla da un gruppo di San Francisco (vi dice niente la scena musicale che, fra una canna e una chioma allergia allo shampoo, ha dato forma alla branca musicale della controcultura americana? Jefferson Airplane, Grateful Dead, Santana solo per citare i più celebri), questi Howlin Rain. Mansion Songs è il loro sesto album in studio ed è, senza nemmeno troppa vergogna, un tributo a 360° circa al rock classico con gli ovvi pesanti punti di riferimento ancorati nella musica tradizionale, blues per l’appunto in primo piano ma anche country e soul.

Mansion Songs è composto da meno di dieci brani per quaranta minuti di musica e si apre con il blues country elettrico di Big Red Moon: fra un lamento roco e una parte di armonica a bocca lanciata in solitaria l’originalità è già sotto le scarpe, pardon, gli stivali da cowboy. Però non è per niente disprezzabile, il ritmo tiene botta nel suo essere sgraziato, è tutto talmente ruvido che lo si apprezza per l’onestà. I problemi arrivano dopo: c’è un duetto particolarmente soft, Coliseum, che però si rivela un po’ troppo soft tanto da diventare floscio, incapace di valorizzare l’incrocio di voci. Restless va a braccetto con Coliseum e fa molto peggio, essendo composta solo dalla voce, bassa e sussurrante, e da qualche sporadico colpo sugli strumenti che non fa atmosfera e non crea alcun mood.
Wild Bush merita di più per la strumentazione e le parti suonate, ancora una volta espressione goduriosa dell’animo rugged della band, che per il cantato che stavolta si accompagna ad un coro.
E parlando di sensazioni personali e forse è un’annotazione stupida: ma un brano come Meet Me in the Wheat dall’influenza tanto soul, esultante e festoso, non era meglio metterlo in coda all’album, magari come traccia di chiusura? Cosa ci fa al secondo posto in tracklist, considerato che poteva aiutare a risollevare il morale e l’impressione generale del finale?
Il resto dell’album si attesta su livelli di una mediocrità ben poco esaltante.

Qualcuno potrebbe dire “Ma Alessandro! Tu hai da poco recensito un album molto simile e gli hai dato un voto molto più alto! Questo è incomprensibile, sei un cretino/pagato dalle case discografiche/intellettualmente disonesto!
Eh no, miei piccoli amici. C’è rimasto forse poco da inventare nella musica (a meno che non vogliate ascoltare seriamente questa arte degenerata) e/o è sempre il momento per il revival di qualcosa: quindi c’è poco da scandalizzarsi al centesimo album di blues rock che nulla aggiunge al genere. La differenza dove sta, provate a indovinare da soli? La qualità, la creatività, l’estro, la personalità, la tecnica; queste doti sono quello che stacca un buon album tradizionale da un mediocre album tradizionale. E queste doti, in Mansion Songs, non vengono esattamente dispensate a palate.
C’era bisogno di puntualizzare? Forse sì o forse avevo solo bisogno di aggiungere un paragrafo tanto per fare scena. Chissà.

Otto tracce sono poche, l’ispirazione latita e se ci scappa di mezzo anche qualche brano insalvabile… poi alla fine il voto è quello che è. E dispiace dirlo perché, se siete ancora qui leggete fino in fondo per favore, gli Howlin Rain hanno fatto molto di meglio. Provare per credere.

Traccia consigliata: Big Red Moon.