In un marzo segnato dai ritorni di icone dell’indie rock, quello dei Grandaddy era quasi inaspettato, ma di certo felice. La band era in religioso silenzio da più di dieci anni dopo Just Like the Fambly Cat, e il frontman Jason Lytle si era dedicato ad un progetto solista con risultati discreti, nonché alla carriera da produttore (risale allo scorso anno Why Are You Okay dei Band of Horses, un disco che purtroppo aveva poco da dire). Le premesse non erano delle più promettenti, ma Last Place è un album che oltre a svelarsi con gli ascolti è anche il manifesto di una rinnovata voce creativa, da parte dei Grandaddy come dell’indie rock americano dei secondi anni ’10.
Definire indie rock il sound dei Grandaddy è quantomeno limitante, e benché venga spesso accostata a colleghi come Guided By Voices e Pavement per l’approccio lo-fi, la formazione californiana ha sempre avuto dei tratti distintivi che l’hanno avvicinata a definizioni meno generaliste come psych pop, alt-folk e space rock: i temi e le ambientazioni dei Grandaddy – che tanto ricordano i romanzi di Douglas Coupland – si muovono sempre attorno a scenari suburbani e quasi post-apocalittici, in cui l’accelerazionismo e la tecnologia fanno paura ma fungono anche da maschera disumanizzante, in cui l’alieno spaesato è più umano dell’umano – basti pensare alla solitudine del marziano sulla terra di Everything Beautiful Is Far Away (del debutto Under the Western Freeway) e al ciclo sull’androide depresso di The Sophtware Slump, che torna anche in Last Place (Jed the 4th); il sound che ha da sempre accompagnato questi scenari alienanti è l’incastro perfetto tra i synth analogici ed i riff ultraterreni che, insieme al falsetto di Jason Lytle ed alle interruzioni e perturbazioni robotiche, fanno e sono i Grandaddy.
In questo senso Last Place riprende da dove The Sophtware Slump aveva lasciato, con una formazione ed una produzione più complete dell’album con cui ci avevano salutato nel 2006. Ad aprire una prima metà di disco sicuramente più poppeggiante c’è il primo singolo estratto Way We Won’t, il cui riff nel ritornello è un automatico “la indovino con una” così come lo sarebbe un riff dei Real Estate, stessa cosa che accade più avanti con i synth disturbati di Evermore, mentre tra le interferenze al singalong facile ci sono le variazioni inaspettate strofa/ritornello di The Boat Is in the Barn e la dirompenza lo-fi di Chek Injin, tra gli episodi più rock del lotto. Nella seconda metà del disco i ritmi si distendono e i toni si fanno più malinconici, permettendoci di dedicarci ai testi nostalgici di Lytle e soprattutto ai tappeti e strati di suoni deliziosi di brani onirici come That’s What You Get for Gettin’ Outta Bed e This Is the Part. C’è una spinta rock e DIY che nella prima metà apprezziamo molto e che dona il giusto equilibrio all’album, ma è soprattutto nella seconda parte che l’inimitabile gusto per la melodia dei Grandaddy viene fuori al meglio della sua forma, in quell’incontro di strumenti che dal crescendo di A Lost Machine esce stremato ma trionfante, ed è poi grazie a quelle costanti interferenze robotiche che le due metà creano un insieme conscio e coerente.
Last Place è il ritorno felice di una band che sa raccontare la ricerca d’umanità sul ciglio dell’apocalisse e sa soprattutto raccontare l’indie rock a chi dice che l’indie rock non ha più nulla da dire.
Tracce consigliate: A Lost Machine, This Is the Part