Giusto un annetto fa nasceva la Phantasy Sound, label di proprietà di Erol Alkan; è finalmente giunto il momento di raccogliere i buoni frutti. Scoperto da mr. Alkan in persona tramite Soundcloud, il misterioso 24enne che risponde al nome di James Greenwood ma che preferisce il suo nome d’arte, Ghost Culture, se ne esce con un album d’esordio veramente coi controcazzi. La sua è la più classica delle storie finite bene, la storia di un ragazzo che è passato dal fare musica per passione nella propria cameretta della periferia londinese, con strumenti di fortuna (un Korg e poco più) e poco tempo a disposizione, al fare musica per la grande scena.
Viziata dalle necessità di tempo, la sua musica, per sua stessa ammissione, è un concentrato di emozioni che dovevano essere raccolte e incanalate in musica in pochissimo tempo; un lavoro che trascende i generi e le influenze per tradursi in sonorità che non necessitano di particolari etichettature, perché di bella musica si tratta, niente di più niente di meno.
La doppietta che apre Ghost Culture è un notevolissimo concentrato di beat e synth, adoperati con l’esperienza che non ci si aspetta da un esordiente: Mouth, singolo già osannato ad inizio 2014, fonde in sé un uso sapiente del basso con suoni robotici qua e la, mantenendo l’attenzione altissima per tutti i suoi sei minuti; Giudecca ha invece in sé il ritmo di Odessa col calore della sua voce calda. E così via il disco scorre bene tra la drum-machine di Arms e l’intima ninna nanna in chiave 2015 di How.
Qualcuno ha azzardato che Ghost Culture “sembra Sound Of Silver remixato da qualche stronzo che fa uk/garage” (ndr) , parere che sembra innegabile in pezzi che sembrano usciti dalla penna di James Murphy quali How o Lucky. Ma c’è spazio ancora per altro ed altro ancora, come la ballabilissima Glass, la straziante Glaciers (Damon Albarn sei per caso tu?) e la poliforme Answer. Ghost Culture rappresenta perfettamente la fusione di più anime in un disco solo, la voglia di fare musica del nuovo millennio senza abbandonare elementi del secolo scorso; Ghost Culture è un viaggio emozionale dentro la mente di un (poco più che) ventenne alle prese con qualcosa, forse, più grande di lui. E se il suo stesso producer ha rivelato che quanto fin’ora prodotto è soltanto la punta di un iceberg, non ci resta che aspettare e tornare a cogliere i frutti che ci vengono offerti, se e quando saranno ancora più maturi.