L’uscita di Nebbia, l’ultimo album dei Gazebo Penguins, ha decisamente stimolato una fetta nutrita di affezionati all’emo/posthc e ai trascorsi del gruppo che ha esordito nel 2011 con Legna – in un contesto di genere ormai in ascesa, grazie ad album come Sfortuna dei FBYC e, se vogliamo, Cattive Abitudini dei Massimo Volume. Ne ho tratto una sensazione generale riassumibile con una frase di Manuel Agnelli: “E sputare tutti addosso al loro mito / che è la causa della loro schiavitù / dell’amore che provavano per lui”. Ho avuto insomma l’impressione che la sacralizzazione della passata produzione dei Gazebo, come è forse naturale che sia per le nicchie di genere, rischiasse di imporre come metodo di ascolto e lettura quello del paragone serrato col passato, nonché l’utilizzo di categorie interpretative ormai vecchie. Per alleggerirsi, dunque, meglio forse dare fiducia alla frase dei Gazebo stessi che accompagna la descrizione dell’album sul sito: “È il nostro disco più bello (sicuramente il nostro disco più bello che uscirà quest’anno)”.

Postrock alla Mogwai fino a Scomparire, che col riff serrato sulla batteria pressante fa pensare al punk-rock poliziesco dei Calibro 35, l’ambiente è immerso in un’idea di movimento stentorio, data dalla batteria che detta il ritmo alle parole, da una chitarra confusa, dai sintetizzatori che leofilizzano e decolorano, assieme ai cori, in una sonorità più sospesa e meno aggressiva dei lavori precedenti. L’unico intermezzo, Fuoriporta, fa da apice e ponte di violenza metal-hardcore, con la chitarra stirata sulla batteria, verso la seconda parte dell’album, lo spezza in due; Porta ne segue i passi, e Atlantide e Pioggia ridiscendono a suon di coretti verso il pop-punk.

Dopotutto, oltre che con la frase sopracitata, l’invito ad un approccio diretto è parso chiaro anche dalla consegna di Cartoline dalla Nebbia, tappa di maturazione del percorso lungo due anni dell’album, nata da riflessioni sull’artwork che hanno portato ad affidare a dei fotografi la traduzione in immagini della tracklist canzoni, prestatagli in formato titolo-testo. Esperimento che dice qualcosa anche sulla scrittura di Capra, che in questo album crea un cosmo parallelo, pre-razionale, fatto di immagini ancora in viaggio dalla realtà all’occhio; irradiato da luci cerulee, che trasmettono “male alla vista” e smania di brancolare, di incontrare qualcuno, a chi lo attraversa. Procederò anch’io il più possibile per fotografie. “Pensavo di averti perso / è la frase che non mi stanca mai / è questione di un attimo / e ci si perde per davvero.”

Il simbolismo decadente della neve / stanze gelate e d’albergo / corridoi vuoti in Siberia dei Diaframma, spalanca la Porta sull’unica città perfetta perché sprofondata per sottrarsi al controllo imperante, Atlantide, e “sparire non è affatto semplice“; su nebbia, pioggia, montagne mantovane, dove paradossalmente Soffrire non è utile in un mondo di sofferenze. Ed alla base c’è un dar voce al circostante, una necessità che siano le immagini a parlare. “Ti smarrirò sulla montagna / a primavera finita / è ancora attivo il tuo profilo / un vuoto aperto sul vuoto”. Ridurre il contenuto di Nebbia a racconto intimista e tardo-adolescenziale della mancata accettazione in amore, rischierebbe di far torto ad un interrogativo che è più ampio e maturo, e riguarda la possibilità di empatizzare con ciò che è altro rispetto a chi guarda: dunque gli altri, il mondo – anche delle possibilità-, in diapositive sbiadite. “Vedere il mondo / prima che il mondo arrivi a me”. È dunque il tentativo febbrile di uscire da sé per determinarsi, senza smarrirsi, pur realizzando l’inevitabile della realtà. “Non c’è notifica che ti salvi / quando niente ti fa stare bene“Ho perso ormai / troppi anni / in cerca di un senso / in cerca di quella libertà che ho perso nascendo”  “Mi sveglierò anche domani / con la paura / che posso fare a meno di te” “Non avrai altro Dio / all’infuori del mondo”.

La ripetizione di “Anche se sembra tutto nero” è la fotografia d’apertura. Nel capitolo XVII dei Promessi Sposi, Renzo è in fuga da Milano verso Bergamo e si smarrisce in un bosco fisico e simbolico, che con la notte che sopraggiunge prendono a sgomentarlo con incubi terribili, apparizioni di paure infantili, alberi e ombre deformate in mostri, odioso rumore di foglie secche calpestate. Già attanagliato da tormenti ben più seri, quel ribrezzo banale e generale quasi peggiora le cose sostituendoli. Sopraggiunge il freddo, l’uggia, e Renzo ha l’impressione che quelle immagini di orrore indefinito lo stiano soverchiando. Ma poi il rumore fraterno dell’Adda, la serenità dell’acqua come immagine-forma accogliente, arriva a sciogliere gli incubi e lo conduce sereno all’alba, in quel cielo di Lombardia, così bello quand’è bello, così splendido, così in pace. Senza una ragione. Così come la pioggia che lo infradicia all’uscita dal lazzaretto dopo l’incubo della peste, acqua sempre immagine-forma dello scioglimento dei tormenti, dello scrollarsi via il torpore e dunque preferire movimento alla stasi, pure inconsci della meta.

Dallo stesso cielo e gridando le stesse ragioni scende l’ultima traccia, Pioggia: Continuo a leggere al buio e tu / continui a tardare // Mi chiedo se / rientrato a casa dormirò sul divano / in queste sere di pioggia / capire che / resto solo / se resti con me.

Tracce consigliate: Bismantova, Nebbia