Alaska.
Terra selvaggia, incontaminata, ostile.
Potrebbe risultare sciocco fare un parallelismo con il Belpaese ma anch’esso è ormai territorio sfavorevole e, al contrario della sconfinata Alaska, sembra starci stretto oggi più che mai.
I Fast Animals And Slow Kids dopo il successo di Hybris si ritrovano ancora nelle terre inospitali dello stivale e con questo disco cercano di farsi carico del lamento generazionale di milioni di giovani.
Il compito non è facile, e sono ben pochi quelli che sono riusciti (in una realtà come la nostra) a mettere in musica il disagio in maniera soddisfacente senza sfociare nel vittimismo più becero e autoreferenziale.
Abbassiamo i toni, non è questo il caso dei quattro perugini ma chiariremo tutto in conclusione.

Il disco si apre con Overture e si viaggia bene, strumentalmente sulle false orme degli Explosions In The Sky e uno “Scusa, mi lascio andare un pò! Ora, dopo ritornerò!” che funge da avvertimento per lo sfogo che arriverà di lì a poco.
Si prosegue con Il mare davanti, un inno dedicato a chi si sente abbandonato da tutto e tutti ma cerca di affrontare l’avvenire per arrivare in fine ad una conclusione triste e spietata “Non c’è più speranza, c’è la morte, c’è il silenzio!”.
Come reagire al presente è forse uno dei brani che funziona meglio (che poi è anche il primo singolo estratto), più enigmatico ma sempre dal sapore crudo e diretto, un’introspezione come ne vedremo altre nel corso del disco.
Coperta è una diatriba tra due personalità opposte, il rischiatutto e l’ancorato al trespolo che si adagia e si lascia vivere senza mai sbilanciarsi o produrre qualcosa di costruttivo per cambiare la propria posizione, “Non è più inverno per noi ma dammi un’altra coperta”. Te lo prometto raffigura tutti gli stronzi dalla doppia faccia che avete conosciuto in vita vostra e la prosecuzione naturale sembra essere proprio Calci in faccia “Datemi l’ennesimo calcio in faccia che da un occhio ci vedo ancora e non ho intenzione di chiuderlo da solo”.
L’apice della rassegnazione che ci accompagna durante tutto l’ascolto del disco viene però raggiunto con Con chi pensi di parlare e Odio suonare. Una rassegnazione che si compie in maniera più lucida e consapevole.
Il vincente è una ballata che riaffiora i nervi, un’immenso punto interrogativo su chi può definirsi o essere definito vincente nella vita di tutti i giorni.
Tutto si chiude con Gran final  che è un grido di speranza guidato sempre dall’impossibilità presunta di riuscire a cambiare le cose.

Il rischio più grande è stato quello di prendere con superficialità questo lavoro.
Un equilibrio perfetto di dinamiche traghetta l’album fino alla conclusione, e testi all’apparenza semplici ma da ascoltare, assimilare e interpretare fanno da contorno ad una buona prova.
La vera conclusione di tutto questo è che forse le tematiche sollevate da Alaska sarebbero risultate meno obsolete un po’ di anni fa e per questo il disco fatica ad emergere dal coro del punk-rock italiano, legato a canoni ormai eccessivamente codificati.

Traccia consigliata: Con chi pensi di parlare.