«Citando il leader Scott Hutchison riguardo l’EP: “This is a collection of songs that for one reason or another did not fit on the full-length record”; e a proposito di questo full-length record (in uscita a febbraio 2013) afferma: “We have written a band record. It used to be just me but I was repeating myself.”.
I buoni propositi e la voglia di fare bene quindi ci sono tutti, ma prevedo che ci ritroveremo nuovamente qui a parlare dei Frightened Rabbit e della loro mediocrità.»
Così avevo consluso, ad ottobre, la mia recensione di State Hospital, EP degli scozzesi Frightened Rabbit che voleva essere preludio del full-lenght record Pedestrian Verse che in queste righe andrò a trattare.
Si badi bene però che con l’espressione finale non stavo condannando in partenza la band, non stavo anteponendo i miei pregiudizi, l’affermazione era un nascosto e velato “forza, dai, so che potete dare di più se vi impegnate! Dimostrate che mi sto sbagliando!”. Avevo ragione o avevo torto? Sarò stato smentito?

Pedestrian Verse è prevalentemente un album chitarristico, di quelli con l’overdrive sempre presente e i powerchords nel ritornello, dico prevalentemente perché i ragazzi si impegnano a infilare qualcosa di diverso ogni tanto per non appiattire l’ascolto: pianoforte e voce in falsetto nell’open Acts Of Man, tastiere nella successiva Backyard Skulls e in Dead Now, un basso trascinante che incalza anche un coretto in Holy, fischiettii e percussioni in Late March, Death March; succede poi che i Frightened Rabbit scoprano altri effetti oltre all’overdrive e utilizzino riverbero e tremolo in December’s Tradition sfociando poi in un riff che se non è plagio di Phosphoresence dei Tall Ships allora taccio per sempre. Addirittura compare una batteria elettronica nella piccola parentesi Housing (in) legata poi alla chitarra acustica distorta del secondo riempitivo da un minuto che risponde al titolo di Housing (out).
Starete pensando a una rispolverata nello stile, immagino, ma il fatto è che il gruppo confina queste digressioni nelle retrovie, come accompagnamento del tutto, concedendo loro qualche protagonismo solo in un’introduzione o in un bridge, rimanendo fedeli al ritornello radiofonico con voce che cresce e diventa coro, il tutto fiancheggiato dai soliti chitarroni, restando dunque sempre imbrigliato in un “classico” poprock che sarà pur ben prodotto e orecchiabile (pezzi come State Hospital meritano di certo), ma che difficilmente lascerà qualcosa dopo l’ascolto, o che per lo meno non risulterà insostituibile da altre band.
A onor del vero c’è da dire che i testi di Hutchison sono sempre encomiabili, onesti, sinceri, qui incentrati sui valori della vita e gli amori e la morte e le cose che non vanno e tutti quegli argomenti che sarebbe facile trattare in maniera banale, ma lui no, lui apre il disco dicendo “I am a dickhead in the kitchen / Giving wine to your best girl’s glass” oppure, parlando di una ragazza, afferma che “her heart beats like a breeze block thrown down the stairs” o ancora grida il liberatorio “I’m dead now, can you hear the releaf?”.

Non mi si fraintenda, Pedestrian Verse è un lavoro sufficiente, discretamente apprezzabile, ma rimango sempre convinto della mediocrità a cui avevo accennato mesi fa, di certo non mediocrità in senso stretto perché qui si parla comunque di un ottimo livello di songwriting e di melodie orecchiabili, ma una mediocrità che si manifesta nel non voler uscire dagli schemi, adagiandosi su sonorità trite e ritrite, su facili sing-along che sono risaputi fare breccia nell’ascoltatore medio, e si sa mai che portino un giorno il proprio nome in fondo a qualche lineup di un festival in madre patria.

Tracce consigliate: State Hospital