I Fine Before You Came sono una band che nel panorama italiano funziona un po’ al contrario: l’hype lo creano i fan per loro. Loro fanno i dischi, la musica fa il resto.  Il Numero Sette esce così, alle dieci di sera di un 28 febbraio, annunciato con un free download sulla loro pagina Facebook, contro ogni legge non scritta dell’hype – dettagli che ci dicono molto sul modo di fare musica della band milanese.

Il Numero Sette lo aspettavamo da cinque anni, anni che hanno visto l’uscita degli EP Come Fare a Non Tornare (2013) e Quassù c’è Quasi Tutto (2014). Dal 2012 di Ormai sembrano però passate ere: nel frattempo, in Italia come all’estero, è esplosa l’ondata dell’emo revival, che in Italia ha preso delle pieghe più vicine all’emocore proprio per il debito fortissimo nei confronti di band come FBYC, La Quiete e Raein. Con l’esplosione di band ed etichette che portano alta la bandiera dell’emo made in Italy, verrebbe quindi da chiedersi che posto abbiano adesso i capostipiti del genere, soprattutto dopo l’assenza dalle scene in un periodo in cui l’offerta musicale è satura e viaggia velocissima. Contro tutti i pronostici, però, i Fine Before You Came ne escono non solo indenni ma forti più che mai, facendo terra bruciata attorno a sé e dando una pacca sulla spalla a tutte le (pur meritevoli) band degli ultimi anni; e qui non stiamo parlando solo della scena italiana perché, sebbene sotto diversi aspetti ci piaccia vederli come i Fugazi italiani, la verità è che – con un talento e una sfera di influenza forti anche all’estero e la capacità di abbattere ogni logica di mercato – i FBYC non sono e non devono essere un’esclusiva nazionale.

Il segreto dei Fine Before You Came sta nell’onestà: quella di rimanere fedeli a sé stessi, e quella di fare musica che significhi qualcosa, in primis per chi la fa. Questo non significa, però, opporsi al cambiamento. Già Quassù c’è Quasi Tutto aveva portato la band ad esplorare i territori del post-rock più vicini al post-metal, dando ancora più profondità al baritono di Jacopo Lietti; anche ne Il Numero Sette i ritmi sono volutamente rallentati – eccetto in parte in Trabocchetti, la cui struttura è più vicina alla formula del post-hardcore. L’album si apre con la marzialità soffocante dell’incontro tra basso/batteria/voce di Ultimo Giorno, per poi far spazio alle chitarre della bellissima Sequel, in cui le parole di Lietti sono recitate piuttosto che cantate (il pensiero ai Massimo Volume viene facile); in generale i sette brani sono sempre in rapporto dinamico tra loro, con la solennità post-rock che pochi come i FBYC sanno sposare con l’impeto post-hc e con la ruvidezza noise, talvolta concedendosi allo screamo (Penultima Notte, Come Pecore).

Se quello che molte band fanno è abbinare testi a musica, nel processo creativo del quintetto milanese le due fasi sono indivisibili, ed è anche per questo che la componente emozionale de Il Numero Sette è forte e violenta: le atmosfere raggelanti, le chitarre austere, la batteria secca e cupa non fanno che intensificare la potenza dei testi, i quali per bellezza già vivrebbero di vita propria, ma nel contesto del disco acquistano una solennità che è quasi eterna, oltre che corale. Ne Il Numero Sette tutto ha una razionalità e un ordine, e la rabbia dei primi album lascia spazio ad una disillusione matura e rassegnata come in “ma se me lo chiedi ci torno con te” di Sequel, in cui l’amore si arrende all’eventualità e alla consapevolezza dell’errore nella recidività (“tu solo sai quanto poco valgo, eppure mi tieni così”). Nel cuore dell’album c’è la coppia Come Pecore / Come Alberi, che contrappone, con un’ineguagliabile potenza visiva, il pessimismo cosmico della prima (“la verità è che il più grande di noi non è che un microbo / e oggi c’è vento, oggi si muore / e il mondo è sempre stato così, uguale a se stesso”) ad un barlume di speranza, di tenerezza, di quella serena accettazione di chi ormai è stanco di tirare “pugni da ogni parte solo per uscire da un sacchetto di carta” in Come Alberi (“e adesso stanchi di giri dall’esito incerto / ciò che sentiamo più alto è far parte di realtà che nessuno possa confutare / semplicemente, come i sassi, come gli alberi”), con la consapevolezza che poi è solo uno il conforto: “abbiamo studiato infiniti modi per addormentarci senza remora alcuna / e svegliarci ancora accanto”.
La chiosa è tutta nelle pacate dissonanze tanto tematiche quanto musicali di Nonsenso Comune. Un tappeto arpeggiato crea la base per un testo talmente riverberato e lontano da suonare come la voce della coscienza, dapprima ferrea (“abbiamo preso una decisione / non possiamo andare avanti / non tirarci indietro / per cui staremo qui / dentro ciò che è stato deciso”) e poi dolcemente irrazionale in un emozionante climax ai limiti del commovente (“quell’abbraccio in cui ci cerco quando gli altri non ci vedono / credo proprio voglia dire addio / è per questo che ci odio / dobbiam sempre dirci addio”).

Per tutta la durata del disco è l’errore a tenere banco, imprescindibile elemento umano dalle – potenzialmente – infinite sfaccettature che, però, confluiscono tutte in un unico punto di incontro: “qualcuno davanti assiste al coraggio di chi tira la prima / rivolto a chi è dietro, racconta una storia / ma poi la seconda è la pietra di tutti”. Le somme si tirano proprio qui, nel concepire che è il nonsenso ad accomunarci, a farci trovare sotto il palco a gridare, a esorcizzare il dolore che non va più ripudiato ma accettato e analizzato, per poi prendersene cura senza mascherarlo ma riconoscendolo come un tratto distintivo. La svolta (resa magnificamente in musica in ogni pezzo) si manifesta proprio nel momento in cui si mette da parte, per un momento, la razionalità che da sempre ci viene insegnata in favore dei sentimenti più puri; solo in questo modo essi potranno tramutare il dolore in un barlume di speranza.

Il Numero Sette è musica che fa parlare la musica, è un’opera che abbraccia tanto la sfera privata quanto quella universale, è schietto e onesto tanto in musica quanto nei testi; è il loro album migliore dai tempi di Sfortuna, forse il loro migliore in assoluto.

[Grazie a Simone Zagari per aver condiviso con me i pianti e le grida – oltre alla stesura di questa recensione]

Tracce consigliate: Sequel, Nonsenso Comune, Come Alberi