Drew Lustman, produttore e remixer di stanza a NY ma sotto contratto con la londinese Ninja Tune, già celebre per composizioni elettroniche di grande livello capaci di amalgamare fra di loro influssi da direzioni diversissime con risultati personali e unici, arriva al quarto album in carriera con questo In the Wild per il progetto FaltyDL.

In the Wild è un viaggio: che considerazione abusata, quante volte lo abbiamo letto. Eppure è innegabile che sia stato concepito come un’esplorazione a livello globale del verde selvaggio, dell’incontaminato. E a differenza di tanti concorrenti, con le diciassette tracce presenti, si viaggia sul serio. L’unico artista elettronico con tanto orecchio per ricreare atmosfere simili, a memoria dei miei ascolti, è l’altrettanto dotato Dominik Eulberg che la cresta dell’onda la cavalcava un po’ di anni fa, all’esplosione della mintech.
L’aggettivo giusto per definire questo album potrebbe essere soave, lieve. La visione della natura che traspare dalle tracceè chiaramente una visione ideale e idealizzata: nelle vesti di pittore sonoro Lustman ha deciso di non mettere accenti di oscurità al suo paesaggio. Le drum machine non picchiano ma tamburellano, i synth accarezzano e sfiorano quasi come un theremin, manca o viene solo accennata l’energia sfrenata della jungle e D&B, la house si declina in versioni ambient e sofisticate. Si sceglie una visione a volo d’uccello, un’esplorazione che ammira dall’alto, ben sopra le cime degli alberi. L’umano c’è, è presente ma relegato a un ruolo minoritario dalla maestosità di quello che lo circonda.
Fa sorridere pensare ad un artista con le radici trapiantate nel cemento di una delle metropoli più grandi del mondo, che produce per una label a caratterizzazione urbana e suburbana e purtuttavia capace di un’opera tale.

Nine, episodio sorprendente, combina un drumming garage rapidissimo e lieve con sintetizzatori che per una manciata di secondi fanno intravedere un’influenza quasi progressive, quasi krautrock.
Non c’è soluzione di continuità trovando, subito dopo, una Frontin, tribale e jungly nelle vocal e nelle percussioni e subito prima il mood sottomarino di Greater Antilles Part 1 che sembra farci udire la voce delle megattere senza arrivare mai a vederle, persi in un blu acceso sempre uguale a se stesso per i nostri limitati sensi umani fuori dal loro ambiente.
Qui e là viene a galla un sottotesto jazzistico che però è stavolta più lavoro di contorno e abbellimento che punto focale: anche la dichiarazione Some Jazz Shit si limita a usarlo come decoro di lusso. Più forte ne è invece la presenza in Ahead the Ship Sleeps, traccia che risplende in un mare liscio come l’olio sotto le stelle del jazz, sarebbe il caso di dire. Vedi qui e qui invece per il recente passato nel quale FaltyDL dal jazz attingeva a piene mani, influsso impossibile da nascondere di una gioventù nella quale ha suonato il basso elettrico in un quartetto.

In the Wild è una vasta, intrigante digressione dall’ambiente dell’elettronico, la dimostrazione più recente che non serve strimpellare un’acustica seduti tra i rami di una quercia per fare musica ispirata dalla natura. Nello stesso momento (nonostante il fatto che se volessi dare un genere di riferimento quello dovrebbe essere l’IDM) non è già più qualcosa sul quale ballare a meno che voi non siate driadi e fauni.
Al primo ascolto la frammentarietà può creare nell’ascoltatore l’idea di trovarsi di fronte ad un intero universo nel quale le molteplici influenze musicali si incontrano, abbracciano e danno vita a piccoli mondi a se stanti, separati dagli altri solo apparentemente. Con più attenzione ci si rende conto che non può non essere che un solo pianeta lussureggiante, immeso e vergine, guardato con stupore e ammirazione.

Tracce consigliate: Some Jazz Shit, New Haven.