Nonostante la giovane età – 26 anni – il buon Mat Cothran ha già dato prova, diverse volte, del suo talento e della sua propensione verso le arti. Quattro album, svariati EP e singoli sotto il nome di Coma Cinema, sei EP – due, Goner e Mickey’s Dead da considerarsi a tutti gli effetti LP – invece, sotto il nome di Elvis Depressedly, progetto che vede come unico altro membro fisso il polistrumentista Delaney Mills, tra l’altro grande amico di Mat. Insomma, parliamo di uno che vive per e con la musica; non l’ultimo scemo arrivato, ecco.

New Alhambra si inserisce in un contesto non facile da definire, culminato con l’approdo alla corte della Run For Cover Records, che a quanto pare ha apprezzato tanto polimorfismo e desiderio di raccontarsi, sotto varie vesti e sotto varie luci. E diciamo anche che quella luce che illumina – o che dovrebbe illuminare – New Alhambra è fioca, quasi spenta, tanto da creare un’atmosfera spettrale, malinconica e affascinante, anticipata dall’artwork del disco, in cui non è affatto difficile immergersi, eppure è complicato uscirne fuori.

In effetti, a leggere il solo nome di questo progetto, Elvis Depressedly, tutto ci si aspetta fuorché qualcosa di allegro, spensierato o positivamente sentimentalista e, in concreto, le aspettative derivanti da tale intuizione combaciano perfettamente con il corpo dell’album: un insieme di soli nove brani dalla durata che non supera mai i tre minuti – tranne nel caso della title track – che hanno come impalcatura un indie-pop gustoso, ricco di arpeggi e drum machine, ritmi lenti che talvolta diventano più movimentati, senza però snaturare il disco e senza conferirgli un’impostazione diversa da quella pensata alle origini. Non esiste un momento, in tutto l’album, che ci si distacchi dal tema portante di tutto il lavoro, tradito forse dall’unico brano “diverso” almeno nelle intenzioni: N.M.S.S. (No More Sad Songs), che di per sé è una canzone triste. Paradossale. Perché sì, ragazzi, queste sono tutte canzoni tristi. N.M.S.S suona più che altro come una promessa che Mat fa a se stesso, ma è una promessa che molto probabilmente non riuscirà a mantenere.

Procedendo con ordine, il disco si apre con Thou Shall Not Murder, una cover della cantautrice americana Dana Dirksen, che riprende uno dei Dieci Comandamenti, facendone il fulcro attorno al quale ruota gran parte del racconto di Mat, fondato su un clima malinconico, a sfondo religioso, scandito da chitarra, basso e batteria per un bedroom-pop povero e genuino, ma per niente banale. A esso seguono N.M.S.S. (No More Sad Songs) e la title track che, come anticipato, è l’unica traccia che superi i tre minuti: un’altra ode malinconica e introspettiva (I’ve turned every corner / I just want you on my mind / When i’m feeling useless, barely getting by) che riprende il filone religioso della opening track (God is all around us all it takes is a thought / Wormwood falls from heaven / Consuming sinner and satan alike / Who will be). Bruises (Amethyst) incarna proprio quell’indie-pop scarno sopraccitato: una drum machine, un paio di chitarre e voce vanno a comporre un brano tanto semplice quanto efficace, che dà ulteriore ampiezza a una dimensione cupa e sognatrice, ulteriormente dilatata dalla successiva Rock ‘N’ Roll, posizionata nel cuore dell’ascolto. Anche in questo caso, vengono tradite le aspettative dell’ascoltatore: a leggerne il solo titolo, ci si aspetterebbe tutt’altra impostazione, tutt’altra struttura, tutt’altro suono. E invece è anch’esso un brano organicamente identico alla opening track, pur operando in maniera ancora più spinta. There’s no such thing as rock ‘n’ roll / Bless my reptilian soul / Jesus died on the cross / So i could quit my job, cantato in quel modo, con la voce di chi, ubriaco perso, si ritrova in un karaoke con il microfono in mano e va a scomodare Gesù per mettere in dubbio il proprio lavoro; fa uno strano effetto, o no?
Big Break, poi, è il brano più spensierato presente in tracklist: una chitarra grezza con reminiscenze 90s è l’ingrediente principale. Due minuti che volano via, lasciando spazio a Ease, che è forse la traccia meno riuscita del disco: praticamente un loop di due minuti scarsi dei quali avremmo anche potuto fare a meno. In New Heaven, New Earth il ruolo principale è invece interpretato dalle percussioni, che conferiscono al brano uno scheletro diverso, certamente più vivace, ma non per questo meno grigio. Wastes of Time, traccia conclusiva di New Alhambra, racchiude forse la vera essenza del disco e incarna quasi perfettamente lo spirito del progetto: Mat canta Heartbreak can’t phase me /i am crazy but i’m true / It’s a sad world we were raised in / You could hate it but what’s the use? e lo fa nonostante la sua credibilità appaia minima. Più che convinto, sembra piuttosto essersi rassegnato davanti alla realtà dei fatti, che non gli consente altro che un’accettazione passiva di tutto ciò che lo circonda. Non è un caso, probabilmente, che sia stato piazzato proprio a conclusione dei venti minuti d’ascolto.

In definitiva, si potrebbe dire che il punto di forza di New Alhambra coincide con il punto debole dello stesso: è un disco troppo breve per essere considerato un capolavoro, ma al contempo è abbastanza lungo, abbastanza ponderato (vogliamo parlare degli intro e degli outro di ogni brano? Quelli della Run For Cover devono essere proprio dei tipi in gamba) e, naturalmente, abbastanza efficace per essere considerato un ottimo lavoro. Perché questi venti minuti sono talmente intensi ed emotivamente carichi che volano via in un attimo. E se l’intento di Mat e soci era “farci riflettere sulle nostre vite e prepararci al giorno del giudizio“, non ci resta che spendere ancora altri venti minuti di ascolto. E aspettare.

Tracce Consigliate: Bruises (Amethyst), N.M.S.S. (No More Sad Songs)