jennydeath

Surreali, prolifici, difficilmente etichettabili. Questi aggettivi riescono a inquadrare la cifra stilistica dei Death Grips; già, perchè solo dei pazzi, bipolari, anarchici sarebbero in grado di fare a pezzi un contratto con la Epic Records, pubblicare un album con questa copertina, annunciare il proprio scioglimento a bruciapelo con un algido comunicato stampa, dando il benservito a Soundgarden e Nine Inch Nails, annullando una serie di aperture per i loro concerti senza dare alcun preavviso a Reznor e soci. Così, prevedibili nella loro imprevedibilità, eccoci a parlare di Jenny Death, album postumo in vita, probabilmente quello che assomiglia al loro lavoro più punk strictu sensu, che si smarca platealmente da Niggas On The Moon, primo capitolo del doppio LP The Powers That B. Virulento come pochi altri lavori di recente uscita, Jenny Death ti spiazza, fa male: sin dal primo brano I Break Mirrors with My Face in the United States si ha come l’impressione di partecipare al proprio martirio interiore: McRide urla la sua rabbia, l’impossibilità di raggiungere l’autenticità nell’odierno music business, l’ossessione per l’immagine e l’invadenza che i media 2.0 comportano. L’entrata da tergo contro lo showbiz e il suo hinterland continua in Inanimate Sensation: la frase “I like my iPod more than fucking” e gli attacchi a rockstar come Slash e Axl Rose, innalzati a santini da imitare dai propri fan, valgono più di mille parole e denunciano il dissenso di Burnett dall’industria musicale di massa.

Notevole è l’apporto percussivo di Zach Hill (per chi non lo conoscesse, si tratta della versione “umana” di Animal dei Muppets), che coniuga la meccanicità dell’industrial, con la cadenza robotica del krautrock, con groove ossessivi che agevolano il processo di alienazione dell’ascoltatore. Quelli di On GP sono i Death Grips che non ti aspetti: riff di chitarroni, synth a palla, batteria pestata con convizione e testi oscuri che conferiscono ulteriore epicità alla traccia:“Listen up, you nosy bitch, listen close, my most recent purchase, old black rope, gonna learn how to tie it, hang it on my chamber”. Beyond Alive si mantiene sugli stessi livelli stilistici, mentre Pss Pss si avventura in territori electro-pop. La title-track The Powers That B ci mostra un Andy Morin in grande spolvero, probabilmente in uno dei pezzi più sperimentali e riusciti del trio, che prende di petto temi come il conformismo con la consueta energia: “You’re bads pathetic, your bads your price tag, your bads embedded in your lives a white flag, a sterilized white flag born bred and buried in it, wears you like a cherry finish keeps you valuable and shiny: you’re a shiny clown to me and the powers that b”. L’elettronica e le drum machine prendono il sopravvento nella conclusiva Death Grips 2.0, che suona quasi come una dichiarazione d’intenti della band: una sorta di manifesto programmatico che si scaglia contro la de-umanizzazione della musica, una sorta di futurismo che impone un distacco sempre più marcato dell’artista dal proprio prodotto finale.

Dadaisti senza sapere cosa vuol dire essere dadaisti, i Death Grips hanno centrato il bersaglio: Jenny Death è uno dei migliori lavori della band di Burnett dai tempi di Ex Military, degno saluto finale(?) per una band che avuto sempre un rapporto ambivalente con la rete e la tecnologia: se da un lato vi è la critica, nemmeno troppo velata, per la superficialità del mondo virtuale, dall’altro è impossibile non notare la sagacia con la quale i Death Grips hanno utilizzato Internet e la possibilità di sfruttare il guerrilla marketing a proprio vantaggio. Se si potesse descrivere questo album con una frase, probabilmente “in your face” rappresenterebbe al meglio l’ultima fatica del trio californiano, capace di fondere musica e contenuti e di destrutturare il concetto di band e di album come entità separate, un po’ come avviene con le colonne sonore in un film. E allora godiamoci questo Jenny Death, in attesa della prossima trollata di McRide&Co.

Tracce consigliate: On GP, Inanimate Sensation.