Che la produzione di questo masterpiece avesse qualche lacuna si evince sia dal personaggio di Dawn Richard che dalla storia che ha accompagnato Blackheart. Esplosa musicalmente e mediaticamente come componente delle Danity Kane, che altre non erano se non il risultato di un reality show americano, la Rihanna dei poveri ha avuto la fortuna di collaborare con personaggi del calibro di Lil Wayne, e di aprire i concerti di Christina Aguilera (e sti cazzi nun ce li metti?). In seguito a vari litigi all’interno della band però (si presume che le cause fossero i differenti punti di vista circa l’interpretazione della Critica della ragion pura) la Richard si separa dal resto per andare a fare musica di merda da sola; purtroppo però in musica spesso non vale la matematica e anche 1/5 di un gruppo di merda può fare musica 5 volte tanto di merda. La stakanovista Dawn annuncia nel 2012 di voler rilasciare una trilogia (The Heart Trilogy) di cui appunto Blackheart rappresenta il secondo episodio; visto il successo delle ben 9000 copie vendute dal primo album Goldenheartdirei che siamo di fronte ad un genio del business. Eccoci dunque al 2013 quando Dawn Richard, ormai in evidente carenza di spiccioli anche per comprare una bottiglia di gin per scordare la sua debacle, lancia una campagna su Kickstarter chiedendo ai fan di finanziare con ben 25k $ il suo prossimo lavoro; risultato: neanche 3000$. Purtroppo tutto ciò non è servito a scoraggiare la tenace Dawn ed è perciò che mi ritrovo a parlare di un capitolo musicale di questo 2015 di cui avremmo fatto volentieri a meno.

Cosa rende Blackheart un album per certi versi cacofonico è la mescolanza senza un criterio di espedienti musicali veramente fuori contesto. L’abuso di quel (discussissimo) strumento infernale che è l’auto-tune è evidente dal primo all’ultimo dei minuti che compongono queste 14 tracce. Ma l’auto-tune non è di per sé un male, ce lo hanno dimostrato anche personaggi quali Kanye West o lo stesso Bon Iver; piuttosto qui siamo di fronte alla completa assenza di una logica compositiva. Si prenda ad esempio Calypso: due tom mandati in loop, poi parte una voce robotica velocissima, dei lamenti e poi un synth che spruzza schifi qua e là, finché nel “ritornello” tutto si incontra in un’orgia musicale tutt’altro che piacevole. La prova del nove ci arriva da Billy Jean: sembrava che andasse tutto piuttosto bene fino a poco dopo il minuto, una base buona, la voce black di Dawn che regala dei bei momenti, ma poi che cazzo succede? Succede che appaiono dei campionamenti vocali selvatici, che dovrebbero dire Billy Jean, da far scendere le palle. Ed è un vero peccato che questi accostamenti mal riusciti rovinino l’album, perché in alcune tracce più minimali si scopre che Dawn ha anche delle potenzialità, vedasi Swim Free, The Deep e  Projection (le prime due molto meglio della terza). Nella parte finale dell’album compaiono poi alcune canzoni degne della migliore programmazione notturna estiva di Mtv come Pheonix Choices.

La vera carenza di questo album è rappresentata dalla produzione scadente, dal mixaggio senza un ritegno, dall’ammucchiare 14 tracce insieme quasi fosse una gara a chi fa più cose. Sicuramente i tentativi di riunione delle Danity Kane, occorsi proprio durante la produzione dell’album, hanno influito sul risultato; ed altrettanto sicuramente Dawn Richard ha delle potenzialità (e non lo scopriamo di certo oggi). Ma purtroppo questo secondo episodio non è andato particolarmente bene; e cara Dawn, lasciatelo dire, di sentori ce ne erano a palate.

Tracce consigliate: Swim Free.