C’era attesa per questo debutto. Dall’Australia arriva come un fulmine l’album di esordio della tostissima Courtney Barnett, che già ci aveva fornito prove del suo estro con un doppio EP. Saranno contenti gli irriducibili dei suoni duri degli anni ’90, gli amanti del Big Muff, i nostalgici di In Utero Superunknown; ma non è tutto qui, non è un semplice revival di un movimento nato e suicidatosi nel penultimo lustro del secolo scorso. No, Sometimes I Sit and Think, and Sometimes I Just Sit fonde in sé tutte le personalità di questa ventenne cresciuta a country e Foster’s.

I due singoli che avevano anticipato l’album (Pedestrian at Best Depreston) rappresentano bene la contraddizione vigente in tutto l’LP. Con Pedestrian at Best conosciamo l’anima più dura di Courtney, il suono è pieno e crudo, la chitarra è incazzatissima e la mente viaggia inesorabile verso i Sonic Youth; la durezza emerge anche dal testo, un vero e proprio proclama (più parlato che cantato) di odio, che esplode in una strofa che è il vero manifesto del menefreghismo: “Give me all your money and I’ll make some origami, honey”. Agli antipodi si trova invece Depreston, vera e propria perla solitaria; un lento e dolcissimo cantato che richiama i più recenti Fear Of Men.
Tra i due poli stanno però altre mille sfaccettature, ed altrettanti riferimenti. Si potrebbe citare Small Poppies per il soul e per la leggerezza à la Mac DeMarco, o il filone punk-rock di Aqua Profunda!Elevator OperatorNobody Really Cares If You Don’t Go to the Party, ma trovare un vero e proprio filo logico nella tracklist sembra tanto arduo quanto inutile.
Sometimes I Sit and Think, and Sometimes I Just Sit, infatti, è un album che suona bene tra alti e bassi, fra le urla e i Boxing Day Blues, un album in cui ci si districa fra foreste di distorsione e vallate di spensieratezza. Forse è questa “modernità” che ha reso Courtney Barnett una delle rivelazioni di questo 2015: la modernità del saper mischiare senza strafare, la mancata necessità del dover creare a tutti i costi qualcosa di nuovo, la capacità di saper infilare un organetto (Debbie Downer) dove nessuno si sarebbe aspettato. Eppure nessuna traccia alla fine dei conti stona.

Negli ultimi anni abbiamo assistito a degli ottimi esordi, seguiti purtroppo in pochissimi casi da conferme all’altezza. L’hype nei confronti di questo lavoro era altissimo, visti i lavori precedenti ed i singoli in anteprima, e le aspettative non sono state assolutamente disilluse. La genuinità caratteriale della Barnett fa, però, ben sperare per il futuro; mi piace immaginarla lontano da tutti, in quell’angolo di mondo, a comporre con la strafottenza di chi non ha niente da dimostrare a nessuno, tra una pessima birra industriale ed un canguro saltellante.

Tracce consigliate: Depreston, An Illustration of Loneliness (Sleepless in New York)