Calcutta è Edoardo; Edoardo è un milione di cose, di suoni, di progetti che il tempo ha frullato fino a questo 2015, in cui se ne esce con un album che adesso piace al pubblico che magari 5 anni fa ascoltandolo a casa dell’amico diceva “ma che è sta merda, metti Lo Stato Sociale“. Un percorso artistico per certi versi atipico, dalla psichedelia al lo-fi al noise, per approdare in quella categoria che non è una categoria detta musica “commerciale”: ma ha veramente senso nel 2015 parlare di commerciale? Questa domanda è rimbalzata qua e là, e Calcutta stesso ha posto fine alla questione sostenendo l’inutilità di questa diatriba. Sicuramente un passo grosso per un ragazzo che è passato da fare musica di nicchia a musica che piace a tanti, e questo rende ancora più difficile capire questo album: dobbiamo coglierne gli aspetti più nascosti e più sofisticati? Oppure dovremmo prendere Mainstream ed ascoltarlo come un qualsiasi album del cantautorato italiano 3.0? Calcutta è mainstream o è così avanti che fa mainstream per prendere per il culo quelli che ascoltano il mainstream? Calcutta è parente dei Thegiornalisti o di Rino Gaetano? Oppure Calcutta non è un cazzo di tutto questo e semplicemente fa musica per il gusto di farla? Basterebbe questo per capire quanto la semplicità, certe volte, sia in grado di confondere ancor più della ricerca più spinta.

Mainstream è un album del 2015, destinato a raccontare una parte del 2015. Nelle dieci tracce si snoda un percorso a tratti banale a tratti assurdo. Prendiamo ad esempio l’accoppiata Dal verme Le barche: che senso ha? Apparentemente nessuno. Ed approfonditamente… ancora meno: è l’assurdo. Ma il resto dell’album è tutt’altro che assurdo: è un album mainstream – sorpresona! – e per certi versi paraculo. La fisarmonica, i campi rom bruciati, Papa Francesco, il Frosinone in Serie A e via dicendo: da Gaetano Frosinone, dalla sdolcinata hit Cosa mi manchi a fare alla nostalgia di Milano: è inutile girarci intorno, le influenze della vita precedente di Calcutta qua non ci sono e se ci sono non vogliono fare capolino. Mainstream è l’album che Garrincha avrebbe voluto produrre nel 2015; uno spaccato di contemporaneità, con suoni curati e melodie che non escono dal cervello per diverse settimane.
L’assurdo della faccenda sta nel fatto che ci si debba ancora giustificare per aver fatto del pop, come se una volta entrati in una scena non se ne possa più uscire senza chiedere scusa. Se si prende Mainstream per quello che è, se si ascolta con la spensieratezza di Hemanto (il protagonista del video di Cosa mi manchi a fare) senza troppa retorica, allora sì, Mainstream è un album che è riuscito per certi versi. Solo allora, le obiezioni da fare a che questo album riguardano il fatto che esca dopo anni che gente come I Cani, i Thegiornalisti, ColapesceL’Orso e via dicendo, sta già facendo la stessa cosa. Un giro vizioso: dalla nicchia, al mainstream, diventando così mainstream da apparire più scontato ancora.

Alla fine della fiera, Mainstream si può ascoltare e riascoltare, con la stessa precauzione di non prendersi mai troppo sul serio. Le componenti della quotidianità ne fanno un album che, se rispolverato nel 2025 ti farà dire “ma ti ricordi di quando Dionisi fece 15 goal col Frosinone in A?“, e forse niente di più. Il fatto che si sia parlato più del percorso di Calcutta che dell’album la dice lunga su quanto spesso si rimane attaccati a dei paradigmi indissolubili. Ma con uno sguardo sopra questa barriera tanto insormontabile quanto fittizia, si possono comunque cogliere quegli elementi che fanno di Mainstream un album piacevole.

Traccia consigliata: Frosinone