La musica italiana si divide in due macrocategorie (una generalizzazione per semplificare, ovvio): c’è una corrente palesemente esterofila che poco aggiunge alla scena contemporanea, ed un’altra che non sa vedere al di là delle nostre radici musicali (leggasi: il cantautorato), pertanto incapace di creare nuovi prodotti italiani degni di nota, limitandosi (per scelta, n.b.) a creare un infinito compendio di lavori che sembrano sbiadite scimmiottature del nostro, glorioso ma passato, repertorio nazionale. Bene, non potrebbe farmi più piacere di così presentarvi un disco come questo, che, orgoglio tutto italiano, si allontana fieramente da entrambe le categorie, ritagliandosi un posto di tutto rispetto nel panorama nazionale ed internazionale. Mi pare anche doverosa un’ulteriore premessa, onde evitare di essere frainteso: proprio perché questo lavoro ha un appeal che riesce assolutamente a superare i confini nazionali e non rimane relegato nel nostro caro paese della pizza e del mandolino (come di fatto accade per la maggior parte delle produzioni nostrane), mi sento di doverlo giudicare più obiettivamente possibile, stanco di una stampa musicale che continua a guardare le produzioni italiane con complice indulgenza, come se per forza dovessimo essere considerati alla stregua del più scemo della classe, che va premiato per l’impegno e non tanto per i risultati, per forza di cose modesti.

Ecco perché sarò esigente ed intransigente: perché questi giovanissimi Boxerin Club non sono affatto gli “scemi della classe”, anzi, e meritano pertanto un trattamento pari ad altre realtà estere.
Passiamo alla musica: come immediatamente suggerito dall’esoticissimo titolo, il disco è pieno zeppo di suggestioni caraibiche, ritmi samba e tanto sole. Il tutto con la naturalezza e l’ingenuità di chi in quei posti non ci è nemmeno stato, e si sente libero di sognarli come preferisce. In questo senso questo disco suona fresco e ingenuo quanto i Led Zeppelin di Kashmir; un’operazione di fatto analoga a quella del beat anni 60, che, per evolversi, ricicla tutto il bagaglio della musica tradizionale americana, suonando più teneramente naiv piuttosto che posticcio, come appunto “dei ragazzini bianchi che suonano musica da negri“. I ritornelli sono di uno squisito gusto pop, suonati con una freschezza che tuttavia non risparmia il suo impegno; i pezzi che compongono questo LP (di cui i migliori sono Bah Boh, Caribbeantown e Northern Flow, anche se stiamo parlando di un disco composto interamente da potenziali singoli) sono arrangiati con precisione, forti di una dinamica tanto debitrice alla musica caraibica, quanto ad un certo folk-pop di matrice inglese, alla quale la formazione romana ruba la dolcezza, l’ipnotica e piacevole frociaggine (quella di Noah And The Whale, per intenderci).

I ragazzi sono giovanissimi (22 anni a testa circa), e, considerando che questo è il loro disco di esordio, sono stati proprio bravi, mostrando ottime capacità compositive e di arrangiamento, sapendo anche (cosa non affatto facile) pescare a piene mani da un certo background sonoro senza mai però cadere nel più becero world pop. Il problema è uno solo: le tracce suonano tutte piuttosto simili fra loro, proprio come potrebbe l’esordio di qualche beat band inglese anni 60 che ha appena scoperto il blues. E come i migliori esempi di quella scena hanno saputo fare, loro devono evolversi e raffinare ulteriormente l’indubbia capacità dimostrata, quindi diamogli tempo. Dai che ce la fate. 

Tracce consigliate: Caribbeantown, Northern Flow