Dopo il rilascio del singolo Glockenspiel Song, avvenuto lo scorso luglio, ecco l’esordio discografico dei Dog Is Dead, nota e apprezzata five-piece-band-di-frocetti da Nottingham. Attivi dal 2008, pubblicano una manciata di singoli abbastanza inutili – notati dallo sceneggiatore di Skins gliene cedono due, e compaiono in un episodio della serie – ed infine eccoceli al loro esordio discografico con questo All Our Favourite Stories.

Non troppo fiducioso, e vagamente spaventato dalla durata del disco, probabilmente eccessiva, vado con l’opening Get Low: con un crescendo abbastanza ortodosso i cinque ci mostrano di saper gestire ottimamente la dinamica, confezionando una canzone altrimenti prolissa con avvedutissimi arrangiamenti.
Dopo aver visto la luce per 4:04 minuti, essermi quasi ricreduto, ed aver sperato in un buon disco, arriva Do The Right Thing con il suo insostenibile riffettino “maggioreee/minoreeee, sono allegrooo/sono tristeeeee” a far crollare ogni speranza. Il disco prosegue con Teenage Daughter, non certo suonato male – ritornelli con le voci doppiate, chitarrine sottili sottili, qualche strumento acustico, ogni tanto un fiato….tutti gli stereotipi dell’indie pop, uno in fila all’altro. Il cantato è molto a luogo, tuttavia lontanissimo dall’essere originale. Un po’ come se i Noah And The Whale facessero una cover dei Vampire Weekend, questo disco suona decisamente già sentito – una confusa accozzagli di topoi del genere.
Ogni tanto compare una batteria elettronica, qualche timido synth: episodi per fortuna molto contenuti, perché suonano improbabili e posticci, come solo la faccia di Rosy Bindi da giovane sul corpo di Rosy Bindi da vecchia potrebbe.
Gli arrangiamenti sono la vera salvezza di questo lavoro, e da soli gli fanno conquistare la semisufficienza: forte e piano sono sapientemente alternati, facendo risultare il mood del disco decisamente meno pesante di quanto poterbbe.
Grande pecca è invece la durata: il disco nel suo complesso è decisamente troppo lungo, le singole canzoni anche: Burial Ground supera i sei minuti, The Well i cinque – manco fossero i Kraftwerk, o Emerson Lake & Palmer. Risulta essere nel complessoun prodotto piuttosto confuso: per certi aspetti (essenzialmente arrangiamenti e dinamica) è prodotto ottimamente, ma puntualmente altri fanno sospettare della sanità mentale del produttore, il quale – ad esempio – potrebbe benissimo mettere le sue canzoni preferite in riproduzione continua sullo stereo di casa sua, senza necessariamente costringere gli ascoltatori a spararsi delle canzoncine indie pop che non sono poi questa “gran figata” per sei minuti consecutivi.
Questo esordio non è però un cattivo disco, anzi, non è acerbo né affrettato: non soffre di nessuno dei difetti tipici degli esordi, sembrando, piuttosto che un esordio, il lavoro di un gruppo che ha già macinato i suoi ritornelli migliori. Certo, potremmo farlo ascoltare ai nostri nipoti e spiegare loro in pochissimi minuti quali erano gli stereotipi musicali dei nostri anni, perché, sotto questo aspetto, questo disco assume toni enciclopedici: fedele e di rapida consultazione, presenta uno stereotipo dopo l’altro, e, sicuramente, di enciclopedico ha la mole.
Ascoltare questo All Our Favourite Stories mi ha richiamato alla memoria quella volta in cui, a sette anni, mia zia mi ha regalato L’Enciclopedia del Gatto, CD-rom allegato: “Grazie zia, bellissima. Che cazzo me ne faccio?“.