Underneath the Rainbow, ultimo lavoro dei Black Lips uscito via Vice Records è un album, non lo nascondo, difficile da giudicare a mente fredda.

Il precedente Arabia Mountain lasciava già presagire un’evoluzione verso lidi più melodici, pur senza compromettere l’attitudine allo sfascio.

Se dovessi sintetizzare la ragion d’essere di questo album direi che l’obiettivo più o meno dichiarato è quello di dilatare il più possibile le atmosfere per uscire dalle maglie troppo strette di un approccio fanaticamente garage. Nel senso che deve essere più o meno questo (anche se in una versione sicuramente più drogata) quello che hanno pensato Cole Alexander e soci durante le registrazioni. Certamente può aver influito il desiderio di raggiungere un pubblico maggiore e ci metto anche la voglia di prendere una nuova direzione. Tutto in buona fede, eh, conoscendo questi pazzi; ma il problema è che se da una parte può risultare frustrante insistere sullo stesso genere per tutta la propria carriera, dall’altra il meccanismo del ritorno alle roots della tradizione americana può risultare un passaggio altrettanto banale.

Drive By Buddy sembra introdurre ad un disco country ad alto tasso di allucinogeni e sto già andando a comprare un paio di stivali a punta in pelle di serpente, quando Smiling fa tirare un sospiro di sollievo con una più rassicurante cavalcata garage rock punkeggiante. Make you mine continua con una certa spensieratezza tutta “dum-ta-ta-dum-ta” e handclaps, mentre in Funny una chitarra riverberata si innesta sulla batteria monotona, salvo poi lasciare spazio ad un ritornello fin troppo agrodolce. Dorner Party sembra partire meglio con un riff che potrebbe ricordare una versione lo-fi dei Beach Fossils. A cambiare ancora le carte in gioco ci pensano Justice After All e Boys In The Wood, figlie di una sensibilità maggiormente southern rock e blues.
Nella seconda parte dell’album l’unico episodio a spiccare per una certa originalità è Do The Vibrate, esperimento quasi dark che si pone tra il punkabilly e il garage demoniaco dei primi Horrors. Non vorrei dover parlare di Dandelion Dust, un imbarazzante tributo ai Black Keys con una linea di basso alla Muse (?!?). Ecco appunto, fino a poco tempo fa con i Black Keys, le Labbra Nere condividevano solo la prima parte del nome, mentre ora, toh guarda, c’è pure Patrick Karney che partecipa alla produzione (e si sente).

Insomma le canzoni che fanno battere i piedi ci sono ancora, ma Jay Reatard da lassù scuote la testa e il pericolo è di trovarsi di fronte ad un prossimo eventuale album del tutto innocuo e inconsistente.

Traccia consigliata: Smiling