Fa sempre piacere parlare di Beck per qualche strano motivo. Un percorso culturale non indifferente; se non percorso lo andrei definendo modus vivendi, e lo dico unicamente perché figlio di una che frequentava la factory di Warhol e di uno che si trascinava nelle strade con legno e corde fra le mani, buskers generazione fifty, e di un altro, che è poi Al Hansen, amico di George Maciunas e partecipante attivo delle belle belle giornate Fluxus all’aria aperta, dove per Fluxus si intende un gruppo indefinito di artisti degli anni sessanta del tipo “preferisco fare altro che dipingere un quadro”. Ed ecco che Beck nasce qui, in questo ambaradan di parentele di visi pallidi, unici nel loro genere a fare l’arte; da un lato il pop sfrontato di Warhol, pop nel senso di pop, non popolare folklorico, ma proprio marchio, brand, uniforme (militare), il pop che state pensando ora. Dall’altro il busking strascicato, il musicista che proietta la sua immagine del mondo nel mondo e dal mondo, immondo, se ne esce; e dall’altro (tre lati) Fluxus che ti dice che tutto può essere arte, basta solo scegliere nel turbine-flusso che ci circonda FLUSSOFLUXUS.
Beck ha scelto il pop del pensiero Fluxus. Che non vuol dire un cazzo ma mi piace, e rende l’idea. Capiamoci: in tutti questi anni Beck non ha fatto altro che leggere la realtà che lo circondava, il flusso, e condensarlo tutto in una canzone pop che ammiccava contemporaneamente a una moltitudine di situazioni differenti, hip pop, blues, funk, country. Funzioni allo stesso modo tu che fai le foto a tutto e poi le salvi tutte in una cartella sola. L’apparente confusione che ne scaturisce non è altro che una fotografia ben fatta, frutto di un contesto parentale non indifferente, e frutto della partecipazione a una generazione che spesso è stata sul pezzo, diciamolo (Capiamoci: Beck nasce nel ’70 e Thom Yorke nel ’68).

E oggi, a distanza di qualche anno dalla sua ultima apparizione discografica (Modern Guilt, 2008), e nel momento più definibile “calma piatta” di tutta la sua generazione, Beck esce con un nuovo disco calmo e piatto allo stesso tempo: Morning Phase.
Questo disco andrebbe accoppiato, a detta sua, a quel Sea Change del 2002 unicamente per il fatto che è calmo e piatto allo stesso modo. D’accordo.
Capiamoci: questo disco non è malvagio, certo non è amore per la pazzia più atavica dell’uomo, non è hip pop non è funk, non è quasi un bel niente di quello che immaginiamo pensando a Beck, ma, vedete, è una sorta di immagine semplice dei nostri tempi. E i nostri tempi cosa sono? Canzoni semplici ed effimere coadiuviate da una grossa produzione. E Beck fa questo, canzonette e grossa produzione. Non si sbaglia. E infatti piace. Poi sì, lo stampo è il suo, navigato su quel folk da meme Neil Young, con tanto di orchestra e cori con riverbero. Non stupitevi, non affannatevi. Questo disco è pop volutamente mieloso che non dice niente.
Non ho nient’altro da aggiungere.

Tracce consigliate: Wave, Blue Moon.