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Nel corso degli anni Duemila, poche sono state le formazioni capaci di incarnare sensazioni, stati d’animo e ambientazioni eteree come i Beach House, il cui nome già ne riflette programmaticamente l’estetica. Il duo di Baltimora non ha mai conosciuto l’eccentricità degli eighties, decennio musicale dal quale attinge a piene mani, mantenendo un profilo volutamente basso, che probabilmente ha contribuito alla loro longevità artistica e a quel loro anacronismo tanto apprezzato dai fan. Come un rituale che si ripete con una cadenza quasi svizzera, ecco Depression Cherry, quinto album in appena un decennio, che segna un ritorno alle origini per Victoria Legrand e Alex Scally, sodalizio nato quasi per caso nei sobborghi del Maryland. Un ritorno all’essenzialità che sarà senz’altro gradito ai fan di vecchia data, anche se dietro un’ apparente semplicità si nasconde un’attenta focalizzazione sul sound, meticolosa fin nei minimi dettagli, perché guai ad etichettare i Beach House semplicemente come “dream pop”. Fermo restando l’indubbio collegamento con gruppi come i Cocteau Twins, la Legrand ha sempre voluto rimarcare come le sonorità della band si fossero sviluppate in maniera piuttosto naturale, senza pressioni dall’esterno, senza necessariamente seguire trend più o meno effimeri. Questo modus operandi ha reso distintivo e netto il timbro dei Beach House, ma ha posto la band di fronte a un bivio: reiterare la formula magica di Teen Dream e Bloom o discostarsi da questi ultimi senza al contempo snaturarsi?

Pare che la scelta sia ricaduta sulla seconda opzione, a cominciare dalla copertina, austera (non meno criptica del titolo che rappresenta) che avrà sicuramente fatto storcere il naso a qualcuno, memore dei pattern polka dot e delle zebre dorate, ma che esemplifica alla perfezione ciò che ci aspetta: una tela rossa, colore della passione, intrisa di nostalgia.
Tutto ciò viene esemplificato in Sparks, singolo introdotto da un sample della cantante (registrato con un iPhone durante un soundcheck) che diventa la colonna vertebrale del brano, sulla quale s’inserisce la chitarra di Scally, tagliente, fuzzosa e distorta come mai prima d’ora, mentre l’organo-synth si impasta perfettamente con il groove della drum machine: dopo le recenti reunion di My Bloody Valentine, Slowdive e Jesus & Mary Chain, sembra di essere tornati in piena era shoegaze. Gli iniziali toni soffusi e indecifrabili “And it goes dark again, just like a spark” culminano in un crescendo scandito dai tom (probabilmente una delle poche parti registrata con una batteria acustica) e dalla voce suadente della Legrand che ripete quasi fosse un mantra “Make it, wave it, alive”. Space Song, come suggerisce lo stesso titolo, evoca atmosfere nebbiose e spaziali, dove arpeggi di synth giocano a ping pong con la melodia della slide guitar: come in un’ideale colonna sonora per un lungometraggio sci-fi, il ritmo è ipnotico e ricorda da vicino quello di Walk In The Park. L’opener Levitation ci introduce dolcemente nelle atmosfere fluttuanti di Depression Cherry“There’s a place I want to take you, where the unknown will surround you[…] “You will grow too quick, then you will get over it”.

Tra i droni e il gradevole falsetto tutto diventa più dolce e tranquillo, nonostante le tematiche cupe (l’affontare l’ansia e la depressione) in perfetta antitesi con i precedenti lavori. Bluebird e Wildflower sono gli episodi che più ci ricordano gli ultimi Beach House, ballate pop-friendly e, con buona pace del duo, dreamy, specialmente la seconda con l’emblematico testo “You built a city all in your head, you know you’re not losing your mind, what’s left you make something of it”. Brani che potrebbero figurare in qualsiasi LP del loro catalogo senza risultare ripetitivi o stantii . Il duo non perde l’innato gusto per la melodia in PPP, una traccia che racconta dolorose separazioni dopo lunghe relazioni (“And if this ice should break, it would be my mistake”), ma con il giusto cipiglio e innocenza, proprio come un brano che potrebbe essere stato scritto dai primi Coldplay o dal Lennon più natalizio. La conclusiva Days Of Candy, immersa nei cori stridenti e quasi cacofonici, culla l’ascoltatore ipnotizzato dalla languida voce di Victoria Legrand fuori dall’onirico viaggio.

Depression Cherry, ovvero il back to basics dei Beach House, è un album scritto da una band allergica alla ridondanza, capace di fondare i propri stilemi su una ricetta ormai collaudata: fondere insieme speranza e malinconia e riuscire a descrivere questo mood, letteralmente, con un suono.

Tracce consigliate: Space Song, Sparks, Wildflower.