LPjacket-finalEtichetta: Transgressive
Anno: 2014

Simile a:
Honeyblood – Honeyblood
Broods – Evergreen
Coma Cinema – Blue Suicide

Mi rivolgo a voi come se foste il mio psicoanalista di fiducia, pronto ad aprirvi una parte della mia anima per confessare un indicibile segreto. Devo ammetterlo: è da più o meno ventiquattro anni che l’approccio della mia mente verso l’ascolto di un nuovo album del pianeta musica è influenzato notevolmente da alcuni fattori: vita sentimentale, tempo, studio, humour in generale e tante altre stronzate classiche delle mie conversazioni quotidiane futili, portate avanti solo per un modesto e alquanto desideroso senso civico che ancora mi appartiene.
Bene in tutto questo vi chiederete giustamente “che c’entra l’album dei canadesi Alvvays con tutto questo pippone semi-esistenzialista?” “Boh non un granché” potrebbe essere la mia risposta, ma non vedo perchè non sfruttare questa “notevole” considerazione portata alla luce direttamente per voi dai recessi più profondi del mio alter ego spione.

E allora c’entra tutto, evviva, gioia, è una bella giornata di sole, ho dato un’esame pochi minuti fa, ho appena mangiato una pizza succulenta, ho di fronte a me una ragazza bellissima e sto ascoltando per la prima volta Alvvays, primo lavoro sulla lunga distanza della band d’oltreoceano Alvvays.
I presupposti per un approccio propositivo ad un disco che è stato incensato da mezza (o forse anche più di mezza) critica ci sono tutti e quindi premo play sul mio riproduttore musicale.
Eccomi qua, trenta tre minuti e nove canzoni dopo con un sorriso che si c’è, ma resta nascosto, celato sotto i baffi dal mio simpatico alter ego. Un po’ esattamente come la bellezza del lavoro della band di Toronto. C’è ma non colpisce quanto dovrebbe.
Si respira aria tipica del genere. Un indie pop genuino rappresentato nella maniera più fedele e necessaria possibile: tra i tocchi di synth e le chitarre sognanti s’inserisce la voce di sensuale e precisa di Molly Rankin (co-fondatrice del gruppo insieme al tastierista Kerri MacLellan) che con le sue melodie accattivanti (Atop a Cake la sto canticchiando ancora) rappresenta indubbiamente l’elemento più riuscito di tutto l’album.
I riferimenti a gruppi del passato sono evidenti (Archie, Marry Me non vi fa venire in mente i Best Coast?) e aldilà di tutto l’album scorre veloce incastrato su pezzi orecchiabili e schietti. Molto bene anche la produzione che vede al timone di comando John Agnello (in passato collaboratore di Kurt Vile, Sonic Youth e Dinosaur Jr), Chad VanGaalen e Graham Walsh degli Holy Fuck.

Allora perché il mio sorriso è rimasto a metà? La risposta è semplice e diretta: manca mordente, un po’ di coraggio in più che indubbiamente il quintetto canadese potrà trovare nei dischi successivi (glielo auguriamo per la loro carriera) e che in definitiva servirà a rendere più interessante una proposta che ha bisogno come il pane di freschezza e innovazione per poter continuare ad esistere nel tempo.

Nel frattempo affronto il mio sorriso a metà e una giornata che si va concludendo. Forse devo rivedere la mia socialità. “Alvvays” scorre ma nonostante il mio approccio propositivo la sensazione che rimane è la mancanza di qualcosa. Carino si, ma nulla di più.

Traccia consigliata: Party Police