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I Cloud Nothings sbarcano a Milano per il Pending Lips Festival, al Carroponte, dopo le date a Roma e a Ravenna e, prima ancora, al Primavera Sound di Barcellona. La curiosità degli avventori è molta, poiché se da una parte la creatura di Dylan Baldi ha raggiunto una tale maturità, solidità e sicurezza su disco (qui la recensione dell’ultimo, bellissimo Here And Nowhere Else), dall’altra la prova del nove del live non è mai così scontata.
Mentre il chiacchiericcio inizia a farsi sentire nei vari stand della location: “Mi hanno detto che al Primavera hanno spaccato”, “Un mio amico di Ravenna mi ha detto che è stato un concerto incredibile ieri sera!!”, veniamo accolti da uno degli organizzatori che ci conduce dai ragazzi per un’intervista, non prima di averci riportato la seguente affermazione: “Prima ho chiesto a Dylan se gli andasse di fare un’intervista, se fosse nel mood… mi ha risposto che lui non è mai nel mood”.
Ok, non il massimo per iniziare.
I tre sono in camerino, computer di qua e di là, bottiglie di superalcolici (Dylan sorseggerà per tutto il tempo vodka liscia), un vassoio di pasticcini – finito – e un vassoio di verdure – intonso –.
Dylan pare quasi più teso di me, barba e capelli lunghi, sorrisi. L’intervista si trasforma subito in una chiacchierata tra coetanei, inizialmente velata di una certa timidezza da ambo i lati, ma ben presto scioltasi in maniera diretta, oserei dire punk, anche se a Dylan non piace definirsi così.

 

DW: Ciao ragazzi. Scusate il ritardo ma il navigatore è impazzito e ci ha portati davanti a una chiesa. Eccoci finalmente!

Dylan: Una chiesa?! (ride) Dai andiamo fuori dal camerino che si soffoca. Qui è troppo rumoroso però, o va bene? Dimmi tu… andiamo più in là? Vuoi andare in chiesa? (ride)

DW: No qui va benissimo! Allora iniziamo dal passato. Hai lasciato la scuola da ragazzo giusto? Non che ora tu sia vecchio, quanti anni hai? Pensi di essere diverso dal Dylan del passato? Dal Dylan che ha deciso di lasciare la scuola?

D: Sì ho abbandonato la scuola a 18 anni, e adesso ne ho 22. Non ne potevo più, sapevo che non era la mia strada sai, non faceva per me, sono quelle cose che senti. Volevo fare musica e basta, musica a tempo pieno.
In un certo senso direi di sì, sono cambiato, ma in un altro direi di no. Sono sempre io, lo stesso Dylan, sono ancora giovane e non ho avuto chissà quale evoluzione pazzesca, ma penso anche di essere cresciuto. Più che altro penso che il mio sia stato il percorso naturale comune a tutti i ragazzi che dai 18 anni passano ai 22, è una cosa che facciamo tutti, io tu e gli altri, magari con modalità diverse, ma è così.

DW: Appunto modalità diverse. La musica ha influito sulla tua crescita?

D: Non direi. Certo sì è stata, ed è, parte integrante della mia crescita e della mia vita, ma come me tantissime altre persone fanno musica. Ciò che mi ha davvero influenzato è stato il girare il mondo così giovane. Avere la fortuna di vedere tantissimi posti e di incontrare un sacco di gente. Questo sì che ti cambia davvero tanto, o comunque influenza il cambiamento già in atto.

DW: Quindi ti piace girare il mondo. Sei sincero quando, in Stay Useless, dici “I’m stuck in here, and I’m tired of everywhere”?

D: (Ride) Cazzo sì se sono sincero. Non ce la faccio a stare per più di due settimane nello stesso posto. Mi annoio a morte, impazzisco. Devo andarmene. Il tour aiuta tanto in questo, ma comunque, anche quando non sono in giro a suonare, mi sto dividendo tra Cleveland e Parigi nell’ultimo periodo della mia vita.

– Nel frattempo ci raggiunge TJ, il bassista della band –

DW: Ah wow, Cleveland è il posto in cui sei nato, giusto? Hai la famiglia là? E Parigi, come mai?

D: Sìsì a Cleveland c’è la mia famiglia, le mie origini, a Parigi invece la mia fidanzata.

DW: Capisco. E cosa preferisci? Cleveland e l’America o Parigi e l’Europa?

D: Ma, guarda, entrambe e nessuna, come ho già detto dopo un po’ mi rompo le palle di tutto e devo andarmene. Quindi mi piace tutto, ma dopo un po’ non mi piace niente.

TJ: Cazzate. Parigi gli piace. C’è la sua fidanzata! (si ride tutti allegramente).

DW: Parliamo dei Cloud Nothings. Progetto nato come solista, nella migliore delle tradizioni college-punk: tu da solo in garage a suonare e a fare casino. Come si è evoluta la faccenda, quando hai capito che avevi bisogno di una band?

D: È stato tutto abbastanza naturale, sai. Dopo due album da solo avevo comunque bisogno di gente che suonasse con me le canzoni sul palco, è questo tipo di musica che lo richiede. Poi però non ci siamo limitati a suonare sul palco e basta, ma siamo andati in studio insieme e tutte quelle cose lì.

DW: Quindi non c’è più il solo Dylan dietro al processo produttivo?

D: Assolutamente no, da Attack On Memory in poi siamo una band a tutti gli effetti. Siamo anche amici, usciamo a bere insieme, ci divertiamo eccetera.

TJ: Non è vero, non siamo amici, siamo nemici. Anzi “frienemies”. A volte lo odio.

DW: Ah davvero? Perché? Rompe le palle in studio?

TJ: Sì a volte litighiamo. No dai, non è vero. Siamo amici. Ci vogliamo bene. (si ride)

DW: Mi hai già accennato della sincerità dei testi. Sono tutti personali? Autobiografici? Oppure hai altre influenze? Non so, leggi un libro o guardi un film e pensi “Ok, questa è una storia che si potrebbe mettere in musica!”?

D: Sìsì assolutamente. Sono tutti testi personali e sinceri. Non c’è niente di finto. Le influenze sono le cose che mi succedono nella vita, mentre viaggio, mentre sono in tour, sempre e comunque. Più che libri e film mi piace guardare la gente. Magari esco, mi fermo, guardo le persone che passano e penso a delle cose, penso alle mie cose, e poi mi vengono in mente delle idee, tutto in maniera naturale. Non scrivo cose forzate o cose in cui non credo veramente al 100%.

DW: Riconoscerai che i tuoi testi non sono proprio il massimo della gioia (ride). A volte però questa pesantezza è stemperata da melodie catchy, quasi pop oserei dire. Altre volte invece ci sono rumori, distorsioni, atmosfere cupe, altre ancora ti incazzi e gridi come un matto. Come mai tutte queste contrapposizioni, questi ossimori?

D: Prova a immaginarti a un disco, con i miei testi, e con le melodie sempre pesanti e opprimenti, tristi. Ce la faresti a sopportarlo? Non credo! O almeno io non ce la farei proprio, diventerebbe esagerato. Ho bisogno un po’ di tutte quelle modalità di espressione per far arrivare la mia musica, non mi piace fare tutto allo stesso modo o mi annoio, e di conseguenza se mi annoio io a fare le mie cose, sicuramente anche chi le ascolta si annoierà. E poi dai, non si può mica sempre essere tristi (ride).

DW: Ma le varie fasi delle canzoni sono cose a cui pensi o ti vengono spontanee? Nel senso, pensi “ecco ora qui metto uno scream, qui un assolo, qui un riff melodico e qui invece faccio casino”, oppure fluisce tutto in maniera naturale?

D: La prima stesura è diretta, poi però l’impalcatura melodica viene rielaborata più volte, mi piace approfondire le varie fasi dei pezzi, renderli più complessi e più completi. Al contrario dei testi, quelli li butto giù e poi basta, va così.

DW: E a proposito del non essere sempre tristi a cui accennavi prima, ho notato che Here And Nowhere Else si chiude con I’m Not Part Of Me che, seppur si mantenga sempre in una vena di negatività e pessimismo, è velata da una certa possibilità di felicità. Come se la si potesse vedere solo da lontano, ma con la consapevolezza che questa esista. Il metterla lì in fondo, può essere un indizio per il futuro dei Cloud Nothings?

D: Sono contento tu l’abbia notato. Assolutamente, I’m Not Part Of Me è lì in fondo proprio per quel motivo. Mi piaceva pensarla lì, come un “chissà cosa accadrà…”. Sinceramente però non so dirti cosa accadrà per il fatto che, volendo essere sempre sincero e schietto nel fare musica, può darsi che in futuro non veda più quella speranza e che essa vada persa. In quel momento, quando ho inciso il disco, e anche in questo momento, ora, mi sento che quel pezzo mi rappresenti lì in fondo, rappresenti i Cloud Nothings. Per il futuro non so proprio, ma spero si continui così, chi lo sa.

DW: I vostri dischi sono veloci, diretti, proprio come un pugno in faccia. Come mai la scelta di fare dischi di mezz’ora con 8 pezzi? È sempre per il fatto che poi la gente si annoia?

D: No è perché vorrei dare davvero pugni in faccia alla gente ma sono troppo debole per farlo, e allora mi butto nella musica (ride). A parte gli scherzi, assolutamente sì, è perché mezz’ora secondo me è abbastanza, io stesso mi rompo le palle se un disco dura più di 30 minuti o se un concerto dura più di un’ora, non ce la faccio proprio.

DW: Quindi non è una cosa che si rifà ai canoni classici del punk?

D: Punk? Io punk? Io mi sento punk come un sandwich al prosciutto!

TJ: Nono non siamo per niente punk. Non abbiamo vestiti di pelle, tatuaggi e quelle altre stronzate lì. Niente di niente. Facciamo musica e basta.

DW: E le copertine di Attack On Memory e Here And Nowhere Else? Belle foto, chi le ha fatte?

D: Le ho fatte io! Sono foto che ho scattato mentre ero in giro. In Attack On Memory è raffigurato il faro di Dover, in Inghilterra; mentre per Here And Nowhere Else ho messo una foto della vista dalla mia casa di Cleveland. Non so, mi sembrava stessero bene con il contenuto dell’album.

DW: E l’Italia, ti piace?

D: Sìsì mi piace molto, recentemente sono stato sul Lago di Como, volevo vedere George Clooney ma i cancelli della villa erano chiusi e non si vedeva dentro (ride). Comunque erano tutti ricchi e vecchi, mi sentivo a disagio, mi guardavano male. Il panorama era molto bello però.

DW: Cosa state ascoltando in questo periodo? Magari qualcosa che non ci aspetteremmo mai, non so, magari musica elettronica? 

D: Stiamo ascoltando tantissima musica acustica, Ryley Walker, Daniel Bachman

DW: Non l’avrei mai detto! Faresti mai un album acustico?

D: Dio mio, no! Non mi piace suonare la chitarra acustica, ascoltarla sì, ma non è il genere che mi piace suonare.

DW: Magari quando sarai vecchio e ricco, sul portico della tua villa sul Lago di Como!

D: (Ride) Cazzo sì! Mai dire mai!

DW: Cosa vi aspettate da stasera?

D: L’ultima volta che siamo stati a Milano ci si era rotta della roba, attrezzatura. Speriamo di non spaccare cose anche ‘sta volta!

DW: Penso spaccherete un sacco di culi!

(Ridono) Speriamo!

DW: Ciao ragazzi, grazie mille del vostro tempo. Anzi, facciamo una foto prima di andare?

D: Certo! TJ muoviti vieni anche tu, sei della band!

TJ: Non mi piace fare le foto. Preferisco fare il photobomber.

 

Tra una risata, un in-bocca-al-lupo e due pacche sulle spalle ci siamo salutati.

E niente, i culi poi li hanno spaccati.