Mesi fa scrivevo su queste pagine a proposito di IV dei canadesi BadBadNotGood che probabilmente vedere questi ragazzi dal vivo sarebbe stata un’esperienza memorabile. Fortunatamente, grazie alle belle scelte artistiche del Quirinetta di Roma, i BadBadNotGood sono venuti a trovarci nella loro prima data italiana in assoluto fermandosi proprio nella capitale.

Era, già sulla carta, un appuntamento da non perdere. Si aspetta un po’ di gente per la serata, quindi arriviamo un po’ prima e troviamo a farci compagnia già un po’ di spettatori e i BEAT SOUP che mettono i dischi, perfettamente a tema con la serata. Il soul jazzato e l’hip hop dei due ragazzi ai piatti accompagna noi e i ritardatari mentre sul palco già affollato di batteria, synth, basso e ottoni, i tecnici aggiungono e fanno il soundcheck ad un flauto traverso. Dopo un po’ di pezzi dei BEAT SOUP il locale è pieno e tutti aspettano il main event della serata: le luci di sala si spengono e si accendono quelle sul palco, seguite da un’ovazione.

I BadBadNotGood salgono sul palco salutando tutti, accendono due bastoncini di incenso e li infilano in un bicchiere di carta rovesciato. La prima cosa che si nota è che sono dei ragazzetti: non sono note le età dei quattro canadesi, ma pare abbiamo tutti al massimo venticinque anni, eppure reggono il palco con maestria, lasciando parlare gli strumenti. L’unico che parla è il batterista Alexander Sowinski, che arringa il pubblico dall’inizio alla fine del concerto, trovando chissà dove il fiato. È lui il polmone del gruppo: la musica si espande e si contrae a seconda dei suoi tempi e lui, bravo condottiero, non sbaglia un colpo.

All’inizio sembra un concerto jazz tradizionale, col primo assolo affidato al basso elettrico di Chester Hansen, accompagnato solo dalla batteria. Poi parte Speaking Gently e Matthew Tavares e il nuovo acquisto del gruppo Leland Whitty duettano tra tastiere e strumenti a fiato. Si capisce da subito che Whitty è il vero jolly della formazione: suona sassofono, oboe, flauto traverso, un tamburello e una cowbell per tenere il tempo e quando non c’è niente da suonare balla, preso benissimo. Anche se riprendono parecchi pezzi da IV non disdegnano il recupero della grande Confessions da III che si perde nell’improvvisazione; tornano a IV con Lavender e tutta la sala si muove col groove sintetico pensato da Kaytranada e ci si rende conto sempre di più che i BBNG riescono alla grande a caricare di tensione i momenti sul palco e scaricare in sfuriate musicali al momento giusto.

Da bravi frequentatori di concerti siamo abituati alle moine degli artisti («siamo felici di essere qui»/«siete un pubblico bellissimo»/«abbiamo bisogno della vostra energia»/«su le mani aiutateci») e l’insistenza dei BBNG su queste all’inizio sembrava un po’ eccessiva, artificiosa; con l’andare avanti dei pezzi però ho percepito una certa genuinità nei canadesi, forse dovuta all’età, forse semplicemente alla musica, che mi ha fatto abbandonare ogni idea di “concerto con copione” e mi ha fatto abbracciare istintivamente la presa bene dei musicisti. Nonostante l’incenso, i piedi scalzi, i dorsi nudi, i balli strambi a mani all’aria, le menate sull’energia, le vibrazioni e la positività e quel momento in cui Sowinski ci ha chiesto di andare con lui nella quinta dimensione l’impressione che resta dei BBNG è quella di un jazz muscolare e atletico più che spirituale, con loro sudatissimi sul palco ad agitarsi come forsennati e noi di sotto a saltare, molto poco etereo se paragonato ai grandi dischi jazz del passato, ma comunque valido. Il finale poi è iperelettronico e si imprime come un’istantanea: Cant’ Leave the Night ci stende definitivamente. Questi quattro canadesi con la faccia da ragazzini che sembrano divertirsi come tali hanno convinto tutti.

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A fine concerto, dopo che un po’ del pubblico è andato via, i piatti ricominciano a girare e tornano i BEAT SOUP in consolle, a chiudere per bene con hip hop e soul la serata. I bravi BadBadNotGood  dal canto loro scendono dal palco a salutare chi è rimasto ad aspettarli e se la ballano anche un po’. L’atmosfera è rilassata e l’afterparty scorre tranquillo tra una chiacchiera in inglese con gli stremati canadesi, l’ultimo drink e qualche firma sull’ultimo vinile del quartetto. Alla fine ci lasciamo dietro le eleganti sale del Quirinetta parecchio contenti, pronti a consigliare l’esperienza a tutti.

Foto: Remo Cassella x Deer Waves