Un po’ di imbarazzo mi assale quando penso al fatto che un gruppo di talentuosi giovini come i BadBadNotGood decidano di andare avanti a suon di LP con titoli numerici ascendenti. Se si esclude infatti il lavoro con Ghostface Killah dell’anno scorso, titolato Sour Soul, i ragazzi di Toronto hanno fatto quattro album con una cifra stilistica molto personale e un livello musicale medio-alto, ma senza troppa fantasia per i titoli: da BBNG sono passati a BBNG2 per arrivare a III; questo, indovinate un po’, si chiama IV. Quattro sono anche i membri della band per questa nuova fatica, perché il sassofonista turnista Leland Whitty si è aggiunto alla banda in chiave stabile, ma la musica dei bravi studenti canadesi non è cambiata di tanto col passare degli anni: rimane sempre un bel jazz contemporaneo miscelato all’elettronica e all’hip hop, che si è certo affinato col tempo ma che non ha mai avuto delle evoluzioni che fanno gridare al miracolo. Quindi, come suona questo IV?

Diciamolo subito: i BadBadNotGood hanno un problema di stucchevolezza: suonano troppo bene, sono troppo belli, stretti coi tempi ma liberi strumentalmente, bilanciati. Sono un gruppo che idealmente non potrebbe non piacere: quattro ragazzi che si conoscono dalle scuole a Toronto che suonano di gusto, con piacere, un jazz ascoltabile e raffinato, radical quanto basta, inseriti nel contesto giusto e con uno sguardo fisso sulla musica contemporanea, ma al contempo pieno di riverenza per quel genere complesso da affrontare in maniera originale che è il jazz, senza rischiare mai di fare album monstre-didascalici come quello che è stato The Epic di Kamasi Washington.

Però tutto questo porta appunto ad una stucchevolezza di fondo: questa gemmina lucente e lucida di musica colta ma popular, jazz sì ma anche hip hop, pecca di misura: per quanto sia convinto personalmente che un concerto dei BBNG sarebbe un’esperienza fantastica, l’album IV (come anche i precedenti, eh) non trova un’esatta dimensione come prodotto intero, non trova un focus e ogni tanto perde di uniformità. È un problema di carattere: sembra che il quartetto di Toronto sia sempre sul punto di spiccare il volo dalla cima di una rupe, e invece resta lì a musicare il paesaggio circostante. Niente da dire, certo, sul livello di descrizione del paesaggio, la classe e le capacità non mancano; però manca il passetto in più, lo stesso che ha portato gente come Flying Lotus a creare album fin troppo complessi e magmatici, ma ai quali non si può dire che manchi il carattere, o la ricerca musicale. Tutto ciò viene sopperito in IV dalle grandi collaborazioni artistiche. È Sam Herring dei Future Islands ad aprire le danze dei featuring con la splendida ballad neosoul Time Moves Slow che scivola su sintetizzatori ciclici e un basso ipnotizzanti, mentre Herring canta di andar via e di come il tempo scorra lento quando si è da soli. Le segue il brillante pezzo dai richiami free jazz Confessions Pt. II che vede al sassofono basso Colin Stetson (uno che ha suonato per Tom WaitsBon Iver e gli Arcade Fire, per dirne solo alcuni) seguire un groove semiostinato espandendo i confini del pezzo che dilaga nel jazz puro. Chiude il trittico di livello l’elettronica del nuovo ospite Kaytranada, che con i bassi succosi del suo cs60 fa vibrare la batteria di Sowinski.

Il problema di IV è proprio che, finiti questi momenti, paradossalmente il disco si appiattisce sulla qualità alta dei suoi musicisti. Provo a spiegarmi meglio: dal momento in cui i BadBadNotGood entrano nel campionato dei dischi jazz, il loro LP è un disco jazz standard, con alcuni picchi ma che per il resto si adagia sugli alti livelli che deve avere un disco jazz per essere pubblicato; i BadBadNotGood sono musicalmente superiori a molti altri gruppi sulla piazza, ma giocano in una categoria maggiore in cui sono invece da media classifica. Questo non vuol dire che in IV non ci siano i momenti memorabili: solo che, sommando tutto, la sensazione che resta è quella di un disco poco più che discreto.

Tracce consigliate: Time Moves Slow, Confessions Pt. II