Avete presente quando vi ritrovate a consumare I know it’s Over degli Smiths, rivalutate i pezzi di Dente, iniziate a capire i National e la voce di Victoria Legrand sembra ancora più malinconica?
Sì esatto! Sono quelle settimane interminabili dopo la fine di una relazione per voi importante.
Trascinandovi tra mille impegni di cui non vi frega una fava e, circondati da amici che vi consolano con il mai banale “Il mondo è pieno di figa”, potreste ritrovarvi la libreria di last.fm invasa dal male di vivere, e sarà allora, solo allora, che tra i suggerimenti comparirà una certa Sharon Van Etten.

Are We There è il suo quarto album ed è il primo per il quale la cantautrice si fa carico anche del ruolo di produttore lasciando il paterno nido degli amici National ma rimanendo comunque sotto la loro ala protettrice.
Dal punto di vista compositivo non c’è gran che da dire, niente di forzatamente innovativo e nulla che distragga da ciò che è realmente al centro di questa produzione, e per me ciò non può che essere un pregio. L’intero disco rimane radicato nel folk-pop cantautorale dei precedenti LP ed ha come fulcro la soave voce di Sharon.
Esce un po’ dal sentiero Our Love per il groove da drum machine ma anche a sforzarsi non c’è niente di “notevole” in questo campo.
Il punto di forza della trentatreenne sono infatti le liriche che, pur parlando dell’argomento più abusato nella storia della musica, riescono ad essere dirette e semplici in modo spiazzante.
Si ha l’impressione di trovarsi di fronte a qualcuno che non vuole raccontare una storia d’amore bensì a qualcuno che, vivendola, soffrendo e cercando di rielaborare “il lutto” si confida con un barista, senza giri di parole e senza cercare di risparmiare quel po’ di reputazione che rimane dopo aver chiamato l’ex da sbronzi. In molte parti il discorso si fa poi ancor più personale e l’ex diventa un interlocutore freddo che dall’alto della sua decisione può permettersi di lasciar parlare senza dare una risposta.
Versi belli allegri come “Break my legs so I won’t walk to you / Cut my tongue so I can’t talk to you / Burn my skin so I can’t feel you / Stab my eyes so I can’t see” vi daranno la giusta carica per buttar giù un altro bicchierone di Stravecchio da 2.50€ e poi, se ne avrete bisogno, la Van Etten vi delizierà con gli intramontabili rimpianti di seconde occasioni mai avute e l’altalenante incertezza nel dire “Ci scorderemo”.
Mentre Taking Chances non sfigurerebbe in un disco dei Beach House,il resto dei pezzi va a braccetto con Burn Your Fire for No Witness della compagna di etichetta Angel Olsen e con l’amica Torres, con la quale ha collaborato recentemente.

Come per il lavoro della Olsen vale ciò che è stato detto prima, disco profondo e che vi lascerà certamente qualcosa ma che per la semplicità degli arrangiamenti non riesce ancora a portare la Van Etten dove merita di essere.
Chissà se anche lei, dopo quattro album di sentimentalismo e sincerità, conclude le proprie relazioni con il buon vecchio “Ti meriti di più”.

Tracce consigliate: I Love You But I’m Lost, Taking Chances.