“Ah, se solo Sofia Coppola sentisse quest’album e ci scrivesse sopra un film”, ho pensato alla fine del primo ascolto di 7, settimo album in studio dei menestrelli del dream pop Alex Scally e Victoria Legrand. Malinconico ma leggero, tetro ma luminoso, incorporeo ma solido e soprattutto dreamy quanto i film della regista e icona di stile Sofia: ecco cos’é 7.

Proprio come i film della Coppola non hanno un plot ben definito, anche 7 non ha contorni nitidi: “sul piano tematico, l’album tratta della bellezza che può nascere dall’oscurità”, l’ha presa alla larga il duo nel comunicato ufficiale che ha accompagnato l’uscita del disco. Proprio come i film della Coppola si reggono su dialoghi scarni e inquadrature fisse, anche 7 si basa su testi che non sono altro che pennellate essenziali e su loop irresistibili. Proprio come i film della Coppola si occupano di argomenti pesanti – la solitudine in tutte le sue variazioni, la morte, la femminilità – con immagini evocative e toni leggeri, anche 7 ha al centro le tenebre (“c’è una dose notevole di caos in questi brani e un non so che di oscuro”, dicono), esplorate però attraverso le solite atmosfere oniriche e sorprendentemente lievi.

A detta di Scally e Legrand, 7 rappresenta “una rinascita, un nuovo inizio”. Al timone, fuori il vecchio compagno di viaggio Chris Coady e dentro Peter Kember alias Sonic Boom (MGMT, Panda Bear) ma niente stravolgimenti, perché formula che vince giustamente non si cambia: i Beach House sono ancora tappeto di sintetizzatori, loop, voce suadente e chitarre ipnotiche (un esempio su tutte è Black Car).  Manifesto di questa nuova voglia di sperimentare (di jammare?) è il secondo singolo Dive, che per i primi due minuti e mezzo è il classico brano à la Beach House: organo come base, voce ultraterrena, accordi celestiali. E tanto bastava a far felici tutti, probabilmente. A questo punto, però, la band sposta l’asticella un po’ più in là, con una batteria che sembra voler ribaltare il primo tempo e far suonare il tutto come una Atmosphere dream pop. Tra una Dark Spring che inizia Arcade Fire (No Cars Go) e finisce shoegaze e filastrocche francesi che rieccheggiano Gainsbourg (L’inconnue), 7 scorre liscio come l’omelia di un prete particolarmente ispirato.

A meno che non abbiate vissuto in un’incubatrice negli ultimi vent’anni, ricorderete più o meno tutti l’enigmatica scena finale di quel capolavoro che è “Lost In Translation”: Bob (Bill Murray) raggiunge Charlotte (Scarlett Johansson) per strada, un attimo prima di partire, e le sussurra qualcosa all’orecchio. Cosa possiamo solo ipotizzarlo, visto che la Coppola ci appenne, fa partire i Jesus and Mary Chain e genera negli anni un culto quasi religioso e speculazioni più che fantasiose. 7 è esattamente quel dialogo che non afferriamo: è un piccolo segreto condiviso solo da Legrand e Scally che noi non possiamo far altro che provare a interpretare. Che cosa pensate che abbia detto Bill a Charlotte? Che l’amava? Forse. Che avrebbe dovuto confessare tutto al marito? Forse. La magia di 7 (e del film) sta tutta lì, in quell’indefinitezza capace di creare un rapporto ancora più intimo con gli ascoltatori/spettatori, ognuno alla ricerca dei propri significati e delle proprie risposte.

Tracce consigliate: Dive, L’Inconnue, Woo