“How odd, I can have all this inside me and to you it’s just words.”
The Pale King, David Foster Wallace

Il punto è che vivere è seriamente difficile. È difficile. È difficile essere se stessi, è difficile capire cosa si è, è difficile compattare la nebulosa interiore in un io da dare agli altri, è difficile partecipare al contesto sociale, è difficile stare soli, è difficile amare, è difficile capire cosa voglia dire amare, è difficile comunicare.

Per alcune persone, è talmente pesante, ipertroficamente ingombrante e ormai annidato ciò che si ha dentro, talmente difficile e delicato esporsi e farsi vedere davvero che, paradossalmente, finiscono per urlarlo, manifestandolo nei modi più palesi e immediati che si possano immaginare. Non ti so dire cosa ho dentro, allora lo canto davanti a 20mila persone. Non saprei mai spiegarti come sto quando soffro (di ansia, di panico o di qualche altro mostro) e allora me lo scrivo addosso, su tutto il corpo, con l’inchiostro indelebile. Invio messaggi laterali in pronta consegna alla massa, lancio bottiglie con foglietti giganti all’umanità, proietto luci accecanti. Su di me. Sperando qualcuno colga i segnali e tenti un avvicinamento per me troppo difficoltoso.

Questa condotta è a suo modo un insegnamento: un insegnamento di empatia. Che tocca, smuove, lenisce.
Un richiamo all’umanità, alla sensibilità, alla compassione. Cum patior, soffro con. Sumpatheia, provare emozioni con.

Questa condotta, questo insegnamento, questo messaggio: tutto ciò è forse l’eredità più importante che ci ha lasciato con la sua musica, le sue parole, la sua intera esistenza Lil Peep, all’anagrafe Gustav Elijah Åhr. Parliamo, tristemente, di eredità, perché Peep ci ha lasciati da ormai tre anni.

Qualcuno potrebbe non essere d’accordo, ma credo non si possa parlare di Lil Peep senza parlare di Gustav, così come non si possa raccontare la sua carriera senza parlare della sua famiglia, il suo percorso artistico senza parlare della sua vita.

“Everybody’s Everything”, il documentario di Netflix

Un buon punto di partenza, per chi non conosca ancora la sua storia, è Everybody’s Everything, il documentario prodotto da Netflix, pubblicato dalla piattaforma streaming lo scorso marzo.
Diretto da Sebastian Jones e Ramez Silyan, il documentario dura circa due ore e restituisce un quadro piuttosto completo della biografia e della carriera di Lil Peep, senza ipocrisie né giudizi di sorta (sul consumo di droga, per esempio), indagando a fondo il vissuto e tutti gli elementi esistenziali che hanno contribuito a formare la persona Gustav e, quindi, il musicista Lil Peep.
Di nuovo, riesce molto difficile tracciare una linea di demarcazione ed analizzare i due percorsi, quello personale e quello artistico, in maniera nettamente separata. C’è, infatti, un’osmosi continua tra la figura pubblica e quella privata. Una dialettica esistenziale ininterrotta, senza alcun indugio o spazio per auto-commiserazione, indulgenza verso se stessi o ego-riferite derive narcisistiche.

Il documentario ha sicuramente il merito di rappresentare con incisività e chiarezza le varie fasi della vita di Peep: le testimonianze della madre, le lettere e le parole del nonno, unite alle interviste a musicisti, amici e produttori discografici, contribuiscono a delineare efficacemente una figura per la quale è davvero molto difficile non provare immediatamente una forte empatia.

Il titolo, Everybody’s Everything, riprende un post Instagram, pubblicato da Peep poche ore prima della sua morte, avvenuta nel novembre del 2017. Vale la pena riportarlo tutto:

I just wana be everybody’s everything I want too much from people but then I don’t want anything from them at the same time u feel me I don’t let people help me but I need help but not when I have my pills but that’s temporary one day maybe I won’t die young and I’ll be happy? What is happy I always have happiness for like 10 seconds and then it’s gone. I’m getting so tired of this

 

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Un post condiviso da @lilpeep

Un post da cui, senza addentrarci in analisi che non ci competono, emerge tutta l’inquietudine interiore di Lil Peep e che quasi sintetizza l’intero spettro delle sue problematiche: quelle psicologiche ed esistenziali, quelle relazionali ed emotive, quelle relative all’uso di droghe.

Sullo schermo, intanto, scorrono le immagini del bambino felice e affettuoso, arrivano quello dell’adolescente problematico, segnato dal divorzio dei genitori. Un ragazzino che forse comincia a perdere certezze, a subire quei tracolli emotivi che, con la precisione chirurgica delle demolizioni controllate e la potenza delle valanghe, ti portano via pezzi di te, su cui non puoi più contare. E ti ritrovi con sempre meno armi a tua disposizione, con sempre meno mezzi per difenderti da un mondo che continua a prenderti alla gola.

Peep trova un’arma importante e potente nella musica: una perfetta valvola di sfogo con la quale poter sia (almeno temporaneamente) depressurizzare un’interiorità sull’orlo del tracollo sia dar libera espressione al suo estro. Che si palesa, da subito, in tutta la sua qualità e capacità.
Del suo genere, dei suoi brani, dei suoi suoni si è ampiamente scritto e dibattuto. L’emo-trap (se così vogliamo definire la sua musica), lo affermo senza paura alcuna, è Lil Peep. Il marchio è inconfondibile: bastano pochissime note, pochissime strofe e parole cantate per riconoscerlo, sempre.
E ciò nonostante la grande varietà delle sue produzioni e il suo svariare di sonorità in sonorità, muovendosi sempre con la stessa dimestichezza e con lo stesso talento, esplosivo e cristallino. Sempre a suo agio, sia durante le sessioni di registrazione sia, quindi, sui palchi in giro per il pianeta.

La galassia emo di Lil Peep

Oggi potrebbe forse rivelarsi un po’ complicato, per l’ascoltatore che si stia approcciando per la prima volta alla sua musica, districarsi tra le varie pubblicazioni di album, singoli, ep e raccolte varie rilasciate sia in vita sia postume. Evidente, però, è il filo che le lega tutte. Il filo di una produzione artistica che ha sicuramente assunto il valore di una vera e propria rivoluzione culturale, di una bomba artistica esplosa nel panorama musicale americano e mondiale, conquistando il favore della critica e arrivando a segnare un’intera generazione.
Il suo immaginario, nonostante alcuni elementi più superficiali possano far immediatamente pensare e associare tutto al rap (che comunque, ovviamente, c’entra eccome sotto il profilo artistico e musicale), è quello del punk e di alcuni sotto-generi alternativi del rock USA anni novanta.
Nella sua musica, nella sua scrittura e nel suo approccio alla composizione, c’è molto più sapore di Blink 182 e Kurt Cobain, che non di Eminem e Tupac, per fare due nomi. In quanto ad energia, origine, attitudine, estetica, cantato.
E in quanto a tematiche, soprattutto: depressione, relazioni amorose distruttive, incomunicabilità, nichilismo.

Con la musica, però, sorgono nuovi problemi, nuovi ostacoli che diventano insuperabili scogli per una persona già scossa nelle più profonde fibre dell’anima. Arrivano successo, ribalta, popolarità e, con essi, approfittatori di ogni sorta, falsi amici, droga, tanta, tantissima droga, tour massacranti e impegni pressanti con case discografiche.
Non sarebbe facile per nessuno, essere stritolato da un sistema, com’è quello dell’industria discografica, volto al mero sfruttamento economico, senza alcuna considerazione per la persona. Figurarsi per, appunto, un ragazzo già tormentato dai propri, famelici demoni e divorato dalla depressione.  Gabbie mentali, sociali e professionali costituiscono una trappola infernale di alienazioni e tormenti.

I swear it gets so lonely sometimes

Peep, Gustav, persona

Peep se n’è andato addormentandosi sul fondo del suo pullman tour, dopo aver assunto diverse sostanze stupefacenti.
L’evento ha suscitato, ovviamente, tanto clamore; seguito da un dibattito piuttosto stucchevole sull’abuso di droghe e una certa condotta della propria esistenza. Si sono lette dure critiche a Lil Peep e commenti che eufemisticamente potremmo definire cinici. In mia opinione, la morte è l’evento supremo per eccellenza e la reazione possibile soltanto una: un rispettoso silenzio.

Parlavamo degli approfittatori, prima. In una delle scene del documentario, si racconta di Lil Peep a casa sua. Una casa completamente invasa da persone: amici, musicisti e anche perfetti sconosciuti. Gli capitava di non poterne più, di aver bisogno di stare da solo. Sentiva, anche per il suo equilibrio personale, di dover cacciare tutti e respirare. Ma non ci riusciva, non riusciva a mandarli via, tanta era la paura di ferire qualcuno.
Finiva per piangere, da solo, chiuso in un armadio. In silenzio, per non disturbare nessuno.

Un’anima gentile.

Leave me alone, just leave me alone
I’m growin’ so tired of this
How do you fight the feelin’?