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Il rituale silenzio tipico dei concerti indie italiani è durato il tempo di un accordo; quell’istante tra il comando al cervello e le dita che si poggiano sul synth. Parte Limonata, seguita a ruota da Frosinone e all’Ohibò di Milano non si è capito più nulla.

Prima di entrare, però, la tensione era tangibile ed alquanto inspiegabile; una velata quanto densa nebbiolina fatta di trepidazione e senso di smarrimento per un inaspettato boom, che ha sorpreso un sornione e dormiente Calcutta di Latina e che ha colpito anche noi che lo stiamo ad ascoltare. Circa 500 i partecipanti che si accalcavano al cancello, tra i quali avvocati, lagentedimilano, psicologi, studenti e donne non di primo pelo. Accreditati, stesserati, non prenotati; la flora e la fauna di Milano e provincia si radunava al padiglione ciociaro.

Oh ma lo sapevi che prima era in inglese?“. “Ma tu le canzoni le conosci tutte?

Le bestialità da pre-live aumentavano, sempre di più; come aumentava la massa di individui più o meno consapevoli di quello che stava per succedere e, mentre mi accingevo ad assumere le fattezze di Woody Allen (vedi sotto, ndr.), si aprivano i cancelli. Non si sono resi necessari gli sfollagente, ma nelle prime file era già un bordello, sebbene non fossimo lì per Fellini o per “The Sorrow & The Pity“.

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Siamo comunque nel posto giusto. Questo è l’hype degli hype, il main event di questo fine 2015 e vogliamo capirci qualcosa di più del fenomeno Calcutta, il crack del campionato; un terremoto al grado più alto che ha scosso il momento attuale della nostra musica.

Quanto è Mainstream tutto questo e, soprattutto, a quale indice di sopportazione è arrivato nel giro di tre o quattro weekend?

L’ora giungeva e lui non si presentava in pigiama. Qualcuno gli ha messo una camicia a quadri ed eccolo lucidato e ben impacchettato per la folla di Milano. Ancora inebetito per la situazione e con la lingua felpata, imbracciava quello che aveva l’aria di essere uno sbagliato, mentre noi – dalla prima all’ultima fila – ci sentivamo di più a San Siro per Albachiara, che al concerto di un emergente alla sua prima e ufficiale sverginata.

Calcutta arriva sul finire di un anno di merda un po’ per tutti. La noia, i disagi dell’uomo moderno, la letteratura spicciola, la finta profondità wannabe Battiato (cit.) e quella consapevolezza diffusa che i bei tempi siano passati. Ha il pregio di portarci sin da subito musica concreta e semplice, tanto che potrei liquidare questo discorso, dicendo semplicemente:

Ma quanto è bello cantare le canzoni di Calcutta??

Una mia amica mi tocca sulla spalla:

Ma quante inculate si sarà preso in amore?” “Eh, un po’ come tutti!

Lo guardiamo, ridiamo. Quanto soffre mentre canta! Però soffre bene.

Partivano, così, anche i pezzi vecchi (Cane, Amarena, I Dinosauri, Pomezia), ma la folla non indietreggiava di un centimetro, con il placet dei fedelissimi sostenitori di vecchia data che si aggiravano tra gli occasionali. Lui, occhi bassi e movenze da tenero teppista consumato, eseguiva qualche ordine impartito dalla crew per accalappiare il proprio pubblico, con quello che ormai sembra essere il suo stile – per alcuni forzato – ma che, invece, risulta molto trasparente. Ecco allora Milano (farcita di un bridge/cover di Velleità), che fa rima con la successiva Gaetano e via via tutto il repertorio di 27 minuti (Le Barche, Del Verde, Dal Verme).

Il concerto ormai si era trasformato in un karaoke incontrollato, durante il quale si alzavano cori da stadio e sciarpate che nemmeno durante il derby capitolino. La sua voce, a tratti impercettibile, veniva travolta da un’onda anomala di grida ed entusiasmo adolescenziale da parte di tutti, anche da parte di quelli che di solito se la menano. La guest star è lui e anche se questa inaspettata etichetta gli vada un po’ stretta in vita, ci gioca come se da lì a poco saremmo andati fuori a scoppiare i raudi.

L’oretta scarsa di live si concludeva con un bis di Frosinone e con una richiestissima Arbre Magique, che veniva in parte cantata da un giovane in prima fila, mentre lui strimpellava con la chitarra, di fronte ad un pubblico che stava vivendo momenti di estasi fantozziana.

Dal fondo della sala qualcuno lo saluta, forse un vecchio amico e sembra dire:

Aò Edoà, ma che cazzo ce fai lassopra?”

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Ecco, Calcutta è anche un po’ questo e in 60 minuti si trasforma in un’arma letale, inconsapevolmente puntata contro il Mainstream dell‘indie nostrano, che ne esce sconfitto e totalmente asfaltato dalla leggerezza di una chitarra scordata, ma che rischia di diventarlo a sua volta, se consideriamo la velocità con la quale ha fatto da zero a duecento.

Comunque, il tono scazzato e questo suo essere molto macchietta rappresentano una forte corazza che lo protegge dagli Osanna di alcuni e dai Vaffanculo di altri.

L’impressione è quella di un autore che è stato buttato nella mischia e che per il momento sta riuscendo a rimanere onesto con il suo modo di scrivere e di esprimersi; come va va, senza dover per forza interpretare il ruolo del tenebroso colto o del mestruato.

Rimane pur sempre anche lui un personaggio, ma anche queste, a ben vedere, sono congetture che in molti casi si rivelano solo come grosse seghe mentali, rivolte verso i progetti ben delineati e definiti. Lui di progetti non ne vuol sentir parlare e la prendiamo per buona, sebbene siamo consapevoli come oggi risulti molto arduo sopravvivere da improvvisati.

Con la viva speranza di non vederlo mai nel salottino intellettualoide della musica indipendente italiana, rimane quest’ultimo pensiero: Calcutta funziona così bene anche e soprattutto perché fa semplicemente cantare, senza troppe menate.

Se, invece, cercate la verità, l’aula di filosofia è oltre la porta qui accanto.

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