Swedish House Mafia live 2012

Band vs DJ, Producer vs DJ, DJ vs DJ. Possiamo tranquillamente affermare che, ultimamente, quella dei disc jockey sia la categoria più odiata all’interno del panorama musicaleIn realtà è bene, anzitutto, specificare che chi si trova nell’occhio del ciclone rappresenta solo quella piccola parte responsabile di aver condannato indiscriminatamente, per effetto alone, un po’ tutto l’insieme. Mi riferisco ai Re dell’EDM: gli headliner di alcuni tra i più importanti festival soprattutto negli Stati Uniti, la terra dei Frat Party e di una diffusa ignoranza in termini di musica elettronica. Triste, se si pensa che dobbiamo proprio a città come Chicago e Detroit gran parte del preziosissimo bagaglio che tutt’ora ci portiamo appresso.

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Cerchiamo però di andare alla radice del problema: perché i DJ attirano tanto odio?

Perché percepiscono cachet troppo alti. Tutto qui. Pensate forse che se i gig dei vari Afrojack, Aoki, Guetta, Avicii ecc. venissero pagati due soldi del monopoli, tre Tic Tac e un calcio in culo il mondo si indignerebbe per la loro popolarità? Io dico di no.

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Ma andiamo un po’ più a fondo: cosa vuol dire percepire un cachet troppo alto?

Ho solo vaghi ricordi dei giorni trascorsi a piangere guardando Forum nella speranza che il giudice Santi Licheri (che dio l’abbia in gloria) mi potesse in qualche modo aiutare a preparare l’esame di Diritto Privato, ma in sostanza significa fornire una prestazione non all’altezza del compenso ricevuto.

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E qui il discorso si fa complesso: chi può stabilire se questa prestazione sia o meno all’altezza del compenso ricevuto?

Chi paga, verrebbe da rispondere. I promoter delle serate a base di EDM si saranno mai schifati di fronte alle performance dei loro artisti? Hanno forse smesso di chiamarli? Anche stavolta, io dico di no. In termini assoluti, dunque, i DJ sono pagati il giusto. D’altronde, questi personaggi si ritrovano a suonare di fronte a decine di migliaia di giovani in delirio. Consumatori finali che hanno pagato il prezzo del biglietto, si sono riempiti di alcol e sostanze varie, hanno ballato, limonato contro i muri, instagrammato foto scattate con il flash nonostante fossero a 20 metri dal palco e raccontato poi agli amici quanto sia stata figa la serata trascorsa. Nel mentre, hanno riempito le casse dei promoter e dei DJ che se ne sono  tornati bel belli a casa a mangiare aragoste, prosciutto di panda o a fare qualsiasi cosa faccia la gente ricca.

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Proviamo ora ad introdurre la relatività. Prendiamo una band, una qualunque, una di quelle che suonano strumenti veri, come piacciono a Win Butler. Se confrontassimo lo sforzo e l’impegno messo dalle due parti nelle loro performance, apparirebbe evidente che i deejay, 9 volte su 10, ne escano vinti. Almeno in questo senso, dunque, i DJ sono pagati eccessivamente. Sia ben chiaro che non faccio riferimento ai Turntablist, i cui sforzi in preparazione dell’esibizione e nell’esecuzione stessa sono più propriamente paragonabili a quelli di un musicista. Sono i Laptop DJ, i cosiddetti Button Pusher, quelli che non fanno granché per giustificare i loro enormi introiti.

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Si può affermare che il processo di digitalizzazione abbia sortito l’effetto di rendere la professione del DJ estremamente democratica. Chiunque abbia un PC e un minimo di tempo da perdere è potenzialmente in grado di mixare due pezzi. Shazam, Beatport, Traktor: ormai la conoscenza è alla portata di tutti e non rappresenta più un vantaggio competitivo. Una volta un gran DJ era colui che passava ore a cercare nuovi dischi e a perfezionare la tecnica. Ora tutto questo lavoro preparatorio è obsoleto e passa in secondo piano: qualsiasi dj set può essere facilmente replicato Shazamando le tracce, comprandole su Beatport e mixandole magicamente con l’aiuto del tasto Sync. 

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Ma se si tornasse a suonare solo vinili? L’analogico sarebbe sufficiente a legittimare gli esorbitanti introiti dei deejay? 

La verità è che probabilmente non cambierebbe granchè. I vinyl-only dj set sono tornati di moda e le vendite di vinili sono letteralmente esplose dopo anni di letargo. Il fenomeno sembra però quasi più uno statement che un tentativo convinto di onorare l’arte del DJing. Dal punto di vista tecnico, è un’iniziativa da apprezzare: sono dell’idea che chiunque scelga questa professione sia quantomeno obbligato non solo a saper mixare due tracce con il solo aiuto dell’udito, ma anche a sapere cosa siano una puntina e una testina fonografica. La triste verità è che la nostra generazione, a furia di musica in cuffia e serate di clubbing, non sarebbe probabilmente in grado di distinguere un mp3 da un vinile nemmeno con una Funktion One puntata contro la faccia. Anche chi è in grado di riconoscere la piattezza del suono restituito da Traktor non sempre è interessato al mezzo attraverso cui viene suonata una traccia, quanto alla traccia in sé: è meglio Redshape a 128 kbps che Pitbull in vinile

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Per citare Richie Hawtin, uno dei massimi sostenitori della digitalizzazione e uno che, nel bene e nel male, ha fatto la storia del clubbling, il digital ha l’enorme merito di aver velocizzato, se non addirittura automatizzato, alcuni processi chiave, aprendo un nuovo mondo di possibilità. Ora i DJ hanno l’opportunità di focalizzarsi su altro: possono sfruttare un maggior range di suoni facendo andare 4 tracce contemporaneamente, o giocare con il looping e gli effetti per rendere una traccia più vivace. Non tutti, in realtà, approfittano del tempo intratraccia per arricchire la propria performance osservando la reazione del dancefloor e selezionando di conseguenza la traccia più adatta, o per rendere un pezzo più “proprio” attraverso scratch, crab, flare o altri trick propri dei DJ di un tempo.

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Il Laptop DJ ha molto tempo tra le mani e, come spesso accade, quando si ha un sacco di tempo a disposizione, si finisce per non fare un cazzo di produttivo (le domeniche di fancazzismo vi dicono forse qualcosa?). Qui la categoria si divide tra quelli che fissano lo schermo come se stessero ammirando la Cappella Sistina e quelli che si muovono frenetici tra knob, fader e pulsanti vari. Il tutto, rigorosamente, tra un sorso di birra/cocktail/vodka dalla bottiglia e una sigaretta dietro l’altra. Per non parlare poi di braccia al cielo, stage diving, dita che suonano pianoforti immaginari e fist-pumping come se non ci fosse un domani.

Ed è qui che entra l’ultimo punto della discussione: la spettacolarizzazione del Djing. Abbiamo fatto morire l’autenticità in favore della Società dello Spettacolo: la parvenza, ora, vale più della realtà?

Con i grandi festival sono nati gli investimenti in enormi schermi LED, in cannoni sparacoriandoli, fuochi d’artificio, mobile App che creano coreografie di luce… è uno spettacolo che pone l’occhio di bue su di un idolo e sull’esperienza che riesce a veicolare. A soffrirne è solo la musica.

C’è però un altro gruppo di artisti reo di voler dare spettacolo a tutti i costi, spesso per giustificare i loro cachet: i producers

Oltre a consentire al 13enne medio di suonare alle prime feste in garage a base di mononucleosi e Bacardi Breezer, i software di produzione musicale come Ableton e Logic Pro, per citarne un paio, hanno moltiplicato a dismisura il numero di Bedroom Producers. Nulla di male, anzi, a guadagnarne siamo spesso noi consumatori. Quando però un producer si ritrova a sfornare un paio di pezzi di grande successo e a farsi un nome nell’industria, automaticamente il pubblico comincia a voler vedere una performance dal vivo e agenti e promoter sono ben lieti di accontentare il popolo. Ragazzi che fino all’altro ieri passavano le giornate in casa a creare musica si ritrovano improvvisamente di fronte a orde di giovani che li fissano in attesa che inizi la loro performance. Performance che spesso non sono in grado di fornire, perché saper produrre un pezzo non significa né saperlo proporre dal vivo (live performance) né saper mixare musica altrui (dj set). E qui si sfoderano Launch Pad e tastiere midi che spesso non fanno altro che scena, ma se sfiorate un paio di volte permettono all’esibizione di essere considerata “live”. 

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Trovare un capro espiatorio da condannare per il recente trend dei “finti DJ” può essere più semplice, ma è sicuramente meno costruttivo in termini di dibattito e confronto di idee. La verità è che lo stesso discorso lo si può intavolare un po’ per qualsiasi settore. Amanti della pellicola vs assidui frequentatori degli spettacoli in 3D, ragazzi in fila da H&M vs gente con borse artigianali, mangiatori di McNuggets vs cultori del cibo biologico. Ciò che conta veramente è che, fortunatamente, esistono ancora club in cui il patrimonio artistico viene valutato come tale e, serata dopo serata, propongono DJ che vent’anni fa non avrebbero sfigurato. L’importante, come in tutto, è sapere dove andare e sbattersene un po’ più i coglioni di dove vanno gli altri. De gustibus, no?