Filip Nikojic e Jeffrey Paradise, dopo anni di cazzeggio in giro per il mondo (il primo come bassista dei Junior Senior e produttore, il secondo DJ e fashion designer) fondano i Poolside. Nel luglio di quest’anno pubblicano il loro primo LP, Pacific Standard Time.
Non ce ne siamo dimenticati, e finalmente, anche se con un rilevante ritardo, abbiamo deciso di recensirlo.

Pacific Standard Time dà, già dal primo ascolto, l’impressione di essere un disco disinibito, fatto da superprofessionisti, diretto un po’ a tutti e compreso -ovviamente- secondo le capacità di ciascuno, un po’ come i tre porcellini. Subito veniamo trascinati via dal mood generale del disco, soffuso e travolgente allo stesso tempo, delicatamente estivo, portavoce di tutti gli stereotipi che hanno per protagonista la California -una specie di Arcadia contemporanea dove c’è sempre il sole, tutti stanno bene e al posto dei pastorelli ci sono i surfisti.

Capito l’intento dell’album, tutto appare più chiaro: Pacific Standard Time non è un disco da prendere troppo seriamente, non è un lavoro che vuole aprire nuovi orizzonti o far urlare al miracolo. Tempo e luogo di fruizione idealmente preposti sono l’estate e la spiaggia (anche se io l’ho ascoltato in pieno autunno in tram, immaginate con che sforzo immaginativo). In questo senso, Pacific Standard Time costituisce una più che valida alternativa ai romanzi da Dan Brown e alla settimana enigmistica.

L’album è arrangiato e prodotto molto bene, le composizioni sono forse un po’ frettolose ma assolutamente a luogo, non tradiscono mai il mood generale, e, chiarito il senso di questo lavoro, non deludono. Percussioni discrete ma trascinanti, memori e sicuramente debitrici alla dance storica, linee di basso coinvolgenti e pompatissime, chitarrine stoppate sempre molto a luogo, con il tipico twang pulito che è un po’ il suono-simbolo della California, quasi come le cornamuse per la Scozia. Il cantato è semplice ed essenziale, spesso superfluo: i brani strumentali funzionano bene tanto quanto quelli cantati, forse addirittura meglio, suggerendo una fruizione poco impegnativa, accentuando quell’elemento di spensierato intrattenimento che è l’essenza di questo disco.

I Poolside stessi hanno dichiararato che si tratta di un album messo insieme in fretta, bloccando così in partenza le critiche di leggerezza che sicuramente sarebbero arrivate puntuali. I due di Frisco sono un po’ i Beach Boys dei nostri anni: fanno musica un po’ del cazzo, che nessuno si sognerebbe mai di ascoltare in modo approfondito e attento, ma che, nel complesso, funziona alla grande. Se, fra una decina d’anni, quando al mondo non ci sarà altro che minimal wave e Lana Dei Rei farà definitivamente solo advertising, potremo tranquillamente tirare fuori dal cassetto questo disco per ricordarci di come suonava la California, quella stereotipica e da cartolina, una decina d’anni prima.

Non è un disco serio, non compratelo e non spendete nemmeno troppo tempo ad ascoltarlo, in giro c’è di molto meglio. Se però avete un pomeriggio libero, o degli amici stronzi vi hanno regalato un weekend alle terme, questo disco fa per voi: scorre via liscio e veloce come un cocktail fatto bene, coinvolge il giusto, rilassa ed evoca magistralmente l’ambiente di cui è figlio e debitore. Un ascolto approfondito sarebbe deludente e fuori luogo -come è vero che, dopotutto, nessuno ordinerebbe mai un mojito per accompagnare uno stufato. Tuttavia, se ne si fa l’uso giusto, questo disco funziona alla grande: non lascia particolari segni del suo passaggio ma sa far divertire, raggiungendo né più né meno che lo scopo che si era preposto.