Che i Superorganism siano una delle rivelazioni di questo 2018 non è più un segreto. Da Londra a Radio Deejay ci passano un Tiny Desk tra i più strambi di sempre e poco più. Stati Uniti, Asia, Nuova Zelanda, Gran Bretagna, Saturno e Proxima Centauri: queste le coordinate geografiche di una band la cui genesi e riuscita risultano ancora difficili da comprendere appieno. Dopo averli visti dal vivo, al Magnolia di Milano per la loro ultima data del tour europeo, qualcosa però si fa più chiaro.
Quando i 7 (8?) salgono sul palco, diventa infatti palese che tutte le distanze geografiche, anagrafiche e culturali siano mitigate e anzi annullate dalla cara e vecchia voglia di divertirsi, senza alcun pensiero per la testa. Aggiungete nel mixer la giusta dose di spocchia diciottenne, mantelli di paillettes, luci sbarluccicanti, sorrisi in technicolor e cazzeggio sfrenato, agitate con cura e avrete ottenuto la formula magica. Oltre a questo, però, c’è anche altro.
Dati i presupposti era facile aspettarsi uno show simil-karaoke, con tutto in base, qualche tamburello qui e là e il rischio baracconata sempre dietro l’angolo, e invece -sorpresa!- questa simpatica marmaglia sa pure suonare e tenere il palco. Mentre vengono proiettati i loro video-collage, rigurgito alieno dell’immaginario videoludico anni 80 (avete mai ascoltato il loro disco su Spotify mobile senza bloccare il telefono?), il batterista fa il suo lavoro e altri due membri si occupano del resto (pad atmosferici, bassi belli presenti e chitarra sghemba); un coro da tre elementi aggiunge poi una originale e godibile presenza scenica e Orono Noguchi (classe 2000), oltre a ringraziare dieci volte il pubblico per essere so fucking cool e a riconoscere un tizio che aveva presenziato a un loro concerto in Ucraina, canta (sempre con una buffa not impressed attitude) e detta il ritmo della serata proprio come una navigata frontgirl farebbe.
L’omonimo disco di debutto prende forma in tutta la sua divertente e divertita plasticosità, fa ballare e regala singalong cui il pubblico risponde sempre presente. È tutto variopinto ma mai posticcio, fuori dal mondo ma in senso buono. I Superorganism sono dei freak sinceri, sono dei meme viventi, una macchina del tempo giunta dall’internet dei gattini che vomitano arcobaleni, una puntata di Portlandia nel mondo reale. Rischio di sentirmi vecchio di fronte a tutto ciò, non lo nego, ma mi faccio contagiare e ritorno in un battito di ciglia a dieci anni fa, a quando mi svegliavo a mezzogiorno e facevo colazione leggendo Pitchfork a caccia di Best New Music, con pochi pensieri per la testa e la spocchia da diciottenne.
La musica si spegne, mi guardo attorno e tutti sorridono mentre i Superorganism se ne tornano nel loro mondo sulle note di Isn’t She Lovely, allegri e danzanti proprio come erano arrivati.
Foto di Andrea Pelizzardi