È una domenica sera di dicembre inoltrato e il tepore di un foyer gremito ci ripara dal freddo pungente che vige in Abruzzo in questo periodo dell’anno. È solo un timido preludio al calore che ci terrà compagnia per le due ore seguenti, nell’abbraccio in velluto rosso del Maria Caniglia, esempio minuto e prezioso di teatro all’italiana incastonato nel tessuto storico di Sulmona.
Dopo le date estive e quelle in giro per l’Europa, la filosofia agricola cantata da Niccolò Fabi nel suo ultimo lavoro in studio si concretizza in un tour fatto di appuntamenti in contesti che in genere soffrono la distanza dal fermento culturale dei capoluoghi di regione. È facile immaginare che quello di stasera sarà un episodio profondamente intimo, specie se confrontato coi palasport che il cantautore ha riempito negli scorsi anni col progetto Fabi Silvestri Gazzè, ma spesso le intuizioni non bastano. Sei là ad alitarti sulle mani congelate mentre attraversi i portici della città per andare ad un concerto, e non immagini quante piccole cose si preparano a combaciare in somme fortuite dal potere balsamico, non sai ancora che tornerai a casa coi guanti migliori da indossare per resistere a ogni tipo di inverno.
Quello che Niccolò porta in giro per gli angoli della Penisola è un disco confortante sin dal titolo. Una Somma di Piccole Cose è un lavoro viscerale, probabilmente il più difficile della carriera del cantautore romano, eppure è il più fluido, con la sua grazia di stampo folk nel musicare temi laceranti e riordinare in parole concrete le inquietudini di un sentire comune, che trae forza proprio dal suo essere trasversale, perché stasera in platea siamo tanti e diversi, per genere, età e cicatrici, ma sediamo accanto a sconosciuti senza vergognarci se un paio di lacrime ci rigano le guance mentre le note di Facciamo Finta ci pizzicano le corde più dolorose, quelle che ogni giorno evitiamo accuratamente di far vibrare.
Sono piccole cose anche quelle che accadono sul palco, e nulla è in eccesso, ne’ lasciato al caso, con le chitarre di Niccolò e i poliedrici compagni che ha scelto per questo viaggio, Alberto Bianco e band, ad alternarsi agli strumenti nel confezionare una sezione ritmica fatta di dettagli gentili, spesso quasi impercettibili, ma tutti ugualmente necessari.
La somma è una catarsi collettiva, che passa dalle ammissioni di colpa di Ha Perso la Città, a risvegliare il desiderio sopito di una dimensione umana del vivere, e dalla ritualità delle luci che profilano le sagome dei musicisti a intonare in coro un Non Vale Più che non ammette repliche. Nel modulare l’atmosfera tra un brano e l’altro, Niccolò ricorre ai più amati della sua discografia e li rinnova con estro: l’urgenza delle liriche di È Non È si rigenera in versione blues, tante chitarre in Costruire non ci fanno sentire nostalgia degli archi. Seduto al piano, pone a confronto gli amori narrati in prima persona, la serena consapevolezza di oggi in Una Mano Sugli Occhi e la malinconia dell’inevitabile che il Fabi di un tempo aveva narrato in Mimosa. La cifra emotiva di un brano come Le Chiavi di Casa esplode nel crescendo di una lunga coda strumentale post rock. L’umore si distende con Io declinata in versione reggae e le percussioni caraibiche mantengono intatto il mood anche in Vento d’Estate, l’energia si moltiplica col pubblico a intonare Oriente, fino al sorriso contagioso con cui Niccolò introduce Lasciarsi un giorno a Roma.
È già il momento dell’encore e nessuno sembra essersi accorto del tempo trascorso. Luci puntate su Fabi che torna sul palco da solo, Vince Chi Molla è una struggente parentesi di sussurri e pianoforte, e la tensione emotiva tocca l’apice nel silenzio solenne con cui il pubblico ascolta per poi sciogliersi in un applauso estatico.
La grandezza delle piccole cose di cui Fabi è capace non sta solo in questo. Al rientro dei suoi musicisti si manifesta in altra forma, quando imbraccia il basso e lascia il centro del palco a Bianco, orgoglioso di guardargli le spalle mentre lui si gode il suo momento intonando Filo D’Erba.
Il finale è una jam session di euforia sulla falsariga di Take Me Home, Country Roads. “Fortunata davvero è la persona che comunque è felice di tornare”, scriveva Niccolò il mese scorso sulla sua pagina Facebook, in viaggio verso Roma, di rientro dal tour europeo. Sul palco, in treno, la sostanza non cambia. La coerenza tra un uomo e la propria arte è un regalo prezioso, che nel suo essere lo specchio sincero dell’imperfezione di colui che l’ha creata diventa il palliativo perfetto a disposizione degli altri.
Lui le chiama piccole cose, ma io camminando verso casa mi sorprendo riflessa in una vetrina a indossare il mio sorriso più grande.