Glasgow è una di quelle città post-industriali tipicamente contraddittorie: casa di edifici mastodontici e casa di vicoletti bui, di quelli che si vedono dei film. È in uno di questi vicoli, qualche metro sottoterra, che si tiene il concerto dei Mineral stasera. I Mineral sono l’ennesima band tornata in tour dopo l’ondata reunion e l’ondata revival – e soprattutto l’ondata di quello che oramai è considerato un genere: l’emo revival, appunto. I Mineral, poi, dell’emo sono tra i più grandi padri e, nonostante i progetti paralleli dei componenti della band, non si ritrovano sul palco da diciassette anni. L’hype è fortissimo con le reunion. La corsa al biglietto è sempre giustificata dal pensiero che “potrebbe essere l’ultima volta che mi capita”, ma spesso non ci si aspetta granché, tuttalpiù di canticchiare un paio di classici suonati da quarantenni un po’ goffi, che quasi hanno dimenticato come stare sul palco.

Tutto questo per dire che no, non è poi così vero: le rughe ci sono, un po’ di goffaggine e di chili in più ci sono, le Converse sono state rimpiazzate da un paio di scarpe in pelle. Quel che non cambia – e questo non solo coi Mineral, ma anche con gli Slowdive, gli Slint, i Neutral Milk Hotel e i ben più datati Television – è il fattore bravura, presenza, emozione, maturità: esattamente quello che da un’esibizione live ci si dovrebbe aspettare. Cosciente di quel che ho visto negli scorsi mesi, decido che ai Mineral non si può richiedere mediocrità. Allora mi accaparro un posto in prima fila, nonostante ancora due band mi dividano dai Mineral; intorno a me il pubblico è variegato, in religiosa attesa. Tra noi ci sono anche un paio di barbe note: i membri dei Biffy Clyro, oggi spettatori anche loro.

The Sinking Feeling

The Sinking Feeling

Alle sette in punto la prima band di supporto, The Sinking Feeling, sale sul palco. Il trio di Glasgow, chiamato all’ultimo minuto a causa di una cancellazione,  vacilla un po’ insicuro tra il pop-punk della voce del chitarrista e il post-punk della voce del bassista, ed è quest’ultimo a convincere di più. Nonostante il panico sul palco a causa di una corda saltata, i ragazzi improvvisano un pezzo strumentale basso-batteria, e hanno la sfacciataggine giusta per tenere bene il palco.

Solemn Sun

Solemn Sun

I Solemn Sun, che hanno seguito i Mineral anche nelle tappe italiane, si presentano vestiti rigorosamente di un bianco e nero minimale, e il logo della band ricorda (leggi anche: imita) spudoratamente quello di Sunbather dei Deafheaven. Il logo mi crea aspettative (post-rock? post-metal? post-che?) che non vengono soddisfatte, perché i Solemn Sun sono un gruppo influenzato dai suoni emo dei primi anni Duemila: la voce principale ricorda Jesse Lacey dei Brand New, ma di Lacey mancano i testi e dei Brand New manca lo stile ben definito; il gruppo di Cheltenham fa affidamento a bellissime linee di basso che però, nel contesto del genere che riprendono, rischiano a tratti di diventare un’accozzaglia. Durante il concerto non faccio che pensare che il chitarrista, che armonizza con una voce che ricorda quella di Andy Hull (Manchester Orchestra) e che è quello con la presenza scenica migliore, dovrebbe essere il vero frontman.

Mineral

Mineral

I Mineral salgono sul palco, senza introduzioni o lunghe attese, e iniziano a suonare. Partono con Five. Eight and Ten, che apre anche The Power of Failing (1997), e serve per scaldare il pubblico vista la qualità del sound che ancora è da ottimizzare; per lo stesso motivo anche la bellissima Gloria, che la segue, non rende al meglio, se non emozionalmente: Chris Simpson, che sul palco si muove poco e in tutto il concerto dirà forse “thanks” un paio di volte (non mancando mai di sorridere, però), è statuario in tutti i sensi. L’immobilità, piuttosto che essere una pecca, in questo caso non fa altro che arricchire e completare la drammaticità dei testi e della voce di Simpson, che con la melanconica February apre una parte di set che rasenta la perfezione: la scaletta, l’emozione, la potenza vocale, la partecipazione del pubblico. Il corpo centrale della setlist si concentra quasi del tutto su Endserenading (1998): a spiccare sono &Serenading, LoveLetterTypeWriter, ma soprattutto Unfinished, che è messa esattamente lì, esattamente al centro, ed è una di quelle sensazioni che ti prendono come una stretta allo stomaco. Sarà perché è stata la mia prima canzone dei Mineral, sarà il modo in cui Simpson urla straziato “I wish you could put your ear up to my heart / and hear how much I love you”, ma quei sei minuti in uno scantinato di Glasgow valgono tutte le sindromi di Stendhal che mi sono persa tra le chiese più belle di Roma.

Alla chiusura con Parking Lot Jeremy Gomez gronda di sudore e Chris Simpson ha perso la voce, però tornano per un bis non previsto perché “sembriamo simpatici” a detta di Gomez stesso. Qualcuno dal pubblico urla “play some old songs”, e Simpson sorride per tutto il resto di If I Could, che va a chiudere un concerto di una band che – a dispetto degli anni di inattività – ha ancora molto da insegnare alla musica futura.

It’s been emotional.