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Nulla, nemmeno Lucifero in persona, avrebbe potuto fermarmi dall’assistere ad uno dei concerti da me più desiderati, bramati, sognati di sempre: i Jesus and Mary Chain! Avere una band così colossale, immensa, spedita dritta dai dorati anni ’80 che suona nel tuo paese, diciamocelo, è qualcosa che non capita certo tutti i giorni.
Ho salutato lo scetticismo alla “Eh ma hanno una certa età, il live sarà fiacchetto” o “Le reunion sono solitamente dei grandissimi pacchi” con un grandissimo dito medio alzato dal finestrino di una gelida macchina in corsa urlando “Direzione Castello Estense, baby“. Ho salutato quello scetticismo e l’ho rapidamente scordato con l’aiuto di alcune birrette gelide pre-concerto, una vera e propria cura per la mia anima seccata dall’afa e dai miscredenti.

Arrivata a destinazione Ferrara si svela poco a poco ai miei occhi nella macchia di calore, come nel quadro “Le Muse Inquietanti” di De Chirico: tutto è immobile, statico, sotto il sole delle 6 di pomeriggio non regna che una morta fissità, un afoso silenzio che viene squarciato dal mio urlo di disagio: “Minchiaaa!”, seguito da un’infinità d’imprecazioni/smadonnate recitate con stoica devozione.
Mi guardo attorno in cerca di corna e zampetta caprine perché Ferrara il 19 Luglio aveva davvero temperature infernali! Subito noto che i miei amici hanno gambe eccessivamente pelose, ma “non ragiono di loro, guardo e passo“.

In Piazza Castello intanto si forma una coda educatamente scalpitante di persone di nero vestite: rossetti neri, collari borchiati, capelli cotonati con annesso odore di lacca – solo Dolly Parton avrebbe potuto competere – mi fanno pensare che l’auto sulla quale sono arrivata a destinazione altro non fosse altro che una Delorean! Sorpresa però: nessuno indossi delle giacche in pelle.
Sono già investita da un’infinità di emozioni, ma a rincarare la dose ci pensa la delicata voce dell’italianissimo The Sleeping Tree, prode scudiero de La Tempesta, che ha per un po’ calmato gli accaldati animi, cullandoci con romantica melanconia tra le note della sua chitarra acustica, una voce calda che ha però il potere di rinfrescare.

L’opening act finisce ed il caldo torna a farsi sentire nella splendida cornice estense. Mentalmente ripenso subito ai giovani Jesus and Mary Chain, ripenso alle facce caparbie, arroganti, ai capelli arruffati, giacche di pelle, skinny jeans e tutto il resto, con affermazioni alla “Joy Division are rubbish“, tra il blasfemo e l’esilarante (intervista qui)

Ma eccoli che verso le 10:00 pmfanno la loro apparizione sul palco, quasi non riesco a riconoscerli – la gente invecchia, bella scoperta, a volte ingrassa – eppure eccoli là, all’arroganza si è sostituita un’aurea difficile da spiegare.

Alle prime note di April Sky sento già che sarà un bel concerto: è quasi amore, il pubblico ancora non capisce dov’è, è stravolto, probabilmente ancora incredulo. Ma è quando inizia Head On che finalmente i corpi iniziano a scaldarsi risucchiati dal ritmo coinvolgente, niente alla “Jesus and Mary Riot” eh, ma tutti cantando a squarciagola con Jim Reid  “And the way I feel tonight, I could die and I wouldn’t mind. And there’s something going on iside, makes you want to feel makes you want to try, makes you want to blow the stars from the sky”
Ogni traccia è una carica di magica energia: April Sky, Head On seguite da Blues on a gun hanno alzato la temperatura ai limiti del sostenibile, uomini che condividono fisicità e secrezioni con Slurm MacKenzie  iniziano a togliersi le magliette lanciandole in aria in preda alla contentezza più assoluta, per fortuna a soccorso è arrivata Some Candy Talking a portare un po’ di romanticismo, così ai corpi sudati si sono aggiunte pure le lacrime.
Tra un brano e l’altro non vengono spese parole, le tracce scorrono in modo quasi meccanico. Stoici i JAMC riproducono una scaletta emotivamente provante che raggiunge il suo momento più alto, o per lo meno il più atteso con, Just like honey: che arriva a sciogliere ogni gelido cuore, facendolo oscillare e sospirare con il ritmo quasi cardiaco delle note iniziali di basso.

 Una scaletta lunga ed apprezzatissima, composta da più di 20 tracce che hanno alternato emozioni e ritmi diversi: da momenti ondeggianti, quasi fluttuanti, ad altri decisamente più agitati e scomposti. I suoni aggressivi, le chitarre sporche “iniettate” di fuzz, colpiscono nonostante i volumi non siano eccessivi (per lo meno non quelli che ci si aspetterebbe).

Un concerto che è stato per molti versi sopra le aspettative e che combinato alla splendida location fornita da Ferrara Sotto Le Stelle ha regalato ricordi indelebili, marchiati da romanticismo e ruvidezza.

Un live intenso, imperdibile per i cultori del genere, che ha fatto sentire i presenti come dei gratissimi privilegiati, dato che posso affermare con certezza portando come prova numerose foto rubate di persone estasiate e felici da morire durante tutto il concerto, ma c’è una cosa chiamata privacy per la quale vi toccherà fidarvi ed esserci la prossima volta.
Però qui potete vedere qualche foto -qualcuna brutta/qualcuna no-, complimentandovi con la mia abilità di scattare tra le teste della gente.