Brain Meds-9

Da tempo, tantissimo tempo attendevo di assistere ad un live dei GOAT.
Un rapido sunto per chi non li conoscesse: nel 2012 sbuca pressochè dal nulla un gruppo di amici svedesi mascherati, vestiti per un rituale satanico e con il potere di rievocare tutta la forza psych/afrobeat/funk scaturita nei magici Sixties, accompagnati da un esordio coi controcazzi dal nome World Music e da sonorità così curate e vintage da far perdere la testa.

Certo, immaginarsi degli scandinavi che riescano a far rivivere qualcosa del genere è come vedersi un Fela Kuti nato ad Abbiategrasso che avvia la sua rivoluzione musicale, cosa che di coerente non ha niente, tipo l’ultimo dei Mumford & Sons. Ma magari la smetto di perdermi in film mentali stupidi e raggiungo al Magnolia il mio fido compagno di concerti Franz, perché la frase detta all’unisono qualche mese fa è stata :

NO, QUESTI NON CE LI PERDIAMO. NO SCUSE.

Appena arrivati dentro ci catapultiamo verso il merchandising pieni di speranze: con quelle figate di artwork con cui ci hanno abituati, vuoi che non ci sia la mia nuova maglietta da concerto preferita ad aspettarmi? Tra l’altro l’ultima bella che mi ricordo di aver preso era quella degli Animal Collective, che ora posso usare come top per andare a correre con le squinzie, ma arrivati davanti il banchetto cadiamo in uno stato di delusione totale vedendo l’unica t-shirt in esposizione che manco quelle tarocche fuori dall’Alcatraz sono così raccapriccianti.
Dopo aver metabolizzato in 7/8 minuti la cocente delusione, andiamo verso il classico tendone bianco dove sta finendo il set dei Mamuthones: non me ne volete, siamo arrivati un po’ tardi, non abbiamo capito bene come suonassero, ma diciamo che il mood per scaldare era quello giusto.
Mentre attendo Franz alle prese con una telefonata da gattone, mi diletto come al solito, e per deformazione professionale ad ascoltare (ma fatti i cazzi tuoi, direte voi) ad attingere le opinioni delle persone di fianco a me, e si crea un bel collage. Le frasi più gettonate:

“Mah, sentite su YouTube quelle due sono un attimino delle campane”
“Chissa che trip…”
“Fai su”
“Ma dicono che spaccano”
“Fai su dopo?”

Che dire, han tutti un po’ ragione in realtà: la loro fama da gruppo live incredibile ce l’hanno, anche se spulciando qualche video qua e là in effetti potresti avvertire una leggera crepa nell’anima quando quelle due stonano insieme. Ma la dimensione è sempre un’altra cosa, quindi a quel punto io sono solo preoccupato dell’acustica del tendone, e prego tanto tanto tantissimo che non si crei, in termini tecnicissimi il famoso “PASTONE”.

Arrivano, e senza esitazione si parte con il ritmo tribale di Words. E’ evidente che questo sia il modo giusto per scaldarsi: ancora non sappiamo quello che succederà a breve, ma la sensazione è che sicuramente dopo questo pezzo si inizierà un bel viaggetto.
The Light Within infiamma il tendone: si inizia a ballare e non poco, e la band comincia a far vedere quello che sa fare. La sezione ritmica è a dir poco entusiasmante: il bassista è incaricato a tener su baracca in diversi momenti dello show e, se ad inizio concerto sembrava che l’ometto col bongo fosse solo un poverino raccattato su a caso, dopo solo 5 minuti mi devo ricredere e farmi allegramente trasportare dal groove.
Si parla di groove ancestrale, a cui è impossibile resistere, su cui i due chitarristi dialogano in maniera impeccabile, dandosi spazio nei momenti più dilatati con una intesa perfetta.

WP_20150507_018

Ed ecco, dopo solo 3 pezzi mi sono ritrovato qua di fronte a loro, preso da un impulso irresistibile. No, non è sempre la gnagna il motivo, stupidotti. Anche se, inutile mentire, durante il concerto incrocio per un attimo lo sguardo della Goat-Stangona ed un attimino mi si ferma il cuore, perché si mi convinco in credo 3 decimi di secondo che lei sia una vera turbofregna. Se metti anche che le luci mettono in risalto le trasparenze del vestito…facciamo che penso alla musica, ok.
Vogliamo parlare un po’ meglio (ed un po’ meno da maniaci) delle nostre due sacerdotesse? Scenicamente impeccabili, scatenate ed energiche, intrattengono a dovere il pubblico e danno un apporto importante con l’utilizzo di percussioni e cowbells. Magari qualche schiamazzo parte, ma non si viene ad ascoltare i GOAT per focalizzarsi su un singolo componente.
Aveva ragione lo zione di qualche momento fa con il suo “Che trip…”.
Non sto neanche a descrivere pezzo per pezzo l’esibizione. A parte che è effettivamente noioso, ma ad un certo punto il live diventa un flusso continuo, quasi una jam senza sosta fatta di continui sali e scendi.
I pezzi di World Music e di Commune si alternano equilibratamente, si continua incessantemente a ballare e io e Franz siamo sempre più allibiti: ma come fanno? Che feeling hanno sviluppato questi ragazzi? No perché la parte strumentale è proprio una gioia per le orecchie. Ovvio che alcuni momenti sono stati più esaltanti. La fantastica Run To Your Mama viene estesa ed è proprio lì che ad un certo punto vado in fissa e di fianco arriva Bender a jackarsi: la testa ballonzola ed il bonghetto non perdona. E la violenza elettrica di Det Som Aldrig Förändras ti arriva addosso, pulsa sul tuo corpo, e ti fa intendere cosa può voler dire curare la propria strumentazione nei minimi dettagli.

Che poi, la leggenda dice che la loro strumentazione sia quella utilizzata dai loro genitori e di quegli amplificatoroni Fender così caldi e potenti non ne trovi più tanti in giro: fatto sta che la differenza si sente, eccome.
A fine concerto mi trovo in evidente stato confusionale/estasiato/felice/tramortito. I GOAT sanno il fatto loro, sono una delle realtà più valide dell’attuale panorama musicale e la loro potenza live innalza a livelli nettamente superiori le loro composizione e le loro idee. E’ un gruppo che si diverte, e che adora suonare quello che li ha sempre uniti.
Io e Franz usciamo soddisfatti ma vogliosi di una ulteriore jam interspaziale di un’altra oretta.

E caro fonico, ti vorrei baciare: hai fatto un lavoro perfetto.